giovedì 28 luglio 2011

“Milo Manara dai negozi specializzati in fumetti è passato ai negozi specializzati in scarpe!” così viene presentato il nuovo Made in Italy in tutto il Sudamerica.

di Sergio Di Cori Modigliani


Milo Manara dai negozi specializzati in fumetti è passato ai negozi specializzati in scarpe!” così viene presentato il nuovo Made in Italy in tutto il Sudamerica.

La notizia è questa, e con mestizia così viene presentata nel gigantesco mercato Argentina/Uruguay/Brasile/Chile, dove sbarca il cosiddetto “Made in Italy” presentando il matrimonio arte/mercato tra il nostro squisito artista e il brand Sisley acquisito della Benetton.
Eppure, Milo Manara –lo dico a scanso di equivoci: splendido artista che mi ha sempre avuto tra i suoi fans e sostenitori- aveva iniziato la sua carriera in quel di Verona, a metà degli anni ’60 (lui è nato nel 1945) abbandonando la carriera artistica di pittore in aperta polemica contro la mercificazione dell’arte. Non solo: ha da sempre denunciato “la micidiale perdente e nefasta collusione e connivenza tra arte come libera espressione dell’anima senza censura e il mercato che deve produrre solo e soltanto merci, merci, merci. Per loro ciò che conta è il mero profitto non la qualità del lavoro dell’artista” (Linus, febbraio1970).
Per protesta trasgressiva passò ai fumetti, arte allora (stiamo parlando della fine degli anni’60) che in tutto il mondo era ancora considerata semplice artigianato di serie B, considerato, dagli snob salottieri cultori dell’impero visivo che controllava l’immaginario collettivo mercificato, una specie di sottoclasse di poveretti che non meritavano la stima dei critici d’arte, dei galleristi, perché non erano “cultura”. Ma negli anni’70 i giovani di tutto il mondo occidentale si innamorarono dell’argentina Mafalda, del mondo bambino di Charlie Brown, delle avventure del gallico Asterix, del capitano di ventura Corto Maltese, dell’ammiccante Valentina di Guido Crepax, delle squisitezze intellettualistiche del canadese Feiffer, dei Flintstones, del beone londinese Andy Capp, del poliziotto futuribile Dick Tracy, e tantissimi altri ancora; Hollywood –sempre bravissima a fiutare i trend che svolazzano nell’aria con grande anticipo- aprì e lanciò un intero settore dell’industria cinematografica nelle trasposizioni sullo schermo delle avventure degli eroi dei fumetti.
Superman, Dick Tracy, Flash Gordon e Batman furono i primi a spianare la strada.
E così, gli artisti autori di fumetti, all’improvviso, si videro promossi in serie A.
Accolti come trionfatori nella palestra di massa dell’arte che conta.
Oggi, 2011, è esattamente il contrario.
Chi produce arte è relegato in un limbo sotterraneo semi-clandestino, perché a livello di massa vengono accolti i cosiddetti “artisti culto”, ovverossia chi produce al servizio delle multinazionali che devono vendere magliette, scarpe, cinture, borsette; perché i loro fumetti e prodotti visivi, sono ben rappresentativi, nella mente delle masse, di una immediata immagine che riconoscono e quindi vogliono acquistare quel determinato prodotto.
Gli autori di fumetti, quindi, sono diventati degli inconsapevoli (quando sono stupidi) veicoli pubblicitari, semplici strumenti di gigantesche catene planetarie di merci global da vendere nel mondo. Sono consapevoli (quando sono intelligenti) e acquiescenti. Hanno dimenticato da dove venivano. Hanno dimenticato le battaglie per le quali avevano combattuto e hanno scelto –dato che ne hanno avuto la possibilità- di optare per il denaro invece che proseguire nella sperimentazione delle loro idee e creatività.
E’ triste, ma comprensibile.
Come ha detto, e scritto, il professor Vittorino Andreoli, eccelso psichiatra italiano, autore di un meraviglioso libro uscito da pochi mesi per i tipi della Rizzoli (“Il denaro in testa”) e purtroppo –certo non a caso- poco reclamizzato e nient’affatto consigliato alle masse per paura di un loro risveglio di coscienza, “nell’inconscio collettivo dell’etnia italiana si è verificata una sostituzione del simbolo-feticcio del denaro che è assurto a una dimensione eroica, epica e divina, sostituendo quelle fantasie erotico/gastronomiche che appartenevano invece un tempo agli italiani; da cui il crollo verticale della libido creativa degli italiani. In testa non hanno più il desiderio dell’incontro amoroso, bensì quello della più veloce forma possibile per acquisire una enorme montagna di denaro. Ormai è diventata una modalità automatica di sinapsi nel cervello”.
Grave delusione da tifoso e seguace, la mia.
Densa di raccapriccio e crollo della stima e del rispetto.
Prsentando in tutto il Sudamerica il lancio delle “scarpe disegnate da Milo Manara” i responsabili della Sisley Benetton hanno applaudito e veicolato un’idea dell’arte che altro non è che una trasposizione forzata della “idea pubblicitaria dell’esistenza”, quella voluta, strategizzata, organizzata, pianificata, lanciata e applicata da Silvio Berlusconi e dai suoi consulenti.
Milo Manara è diventato così un venditore di scarpette global.
Tutto qui.
Anche indecente.
Lo è.
Milo Manara è indecente.
Certamente non per le sue immagini che rimangono adorabili, stuzzicanti, evocative.
Per la sua mancanza di coraggio intellettuale e per la sua spudorata arroganza senza limiti. Lui che altro non è se non un servo di una catena global che vende merci inutili (ed è stata una sua scelta non motivata né dalla necessità né dal bisogno né da un guizzo sperimentalistico da artista) potrebbe anche risparmiarci l’angosciante litania di questa immonda categoria di pesudo-intellettuali che il gorno prendono i soldi dalle multinazionali e poi la notte –come nel suo caso- vanno a Cortina d’Ampezzo presentando se stessi come eroi di un’avanguardia intellettuale che combatte l’industrializzazione del mondo, la globalizzazione dei mercati, la mercificazione dell’arte, e poi, una volta spenti i riflettori, approfittando dell’imbecillità sonnolente della massa, passano per la cassa a incassare le percentuali sulle scarpette vendute.
“Ma perché un artista sceglie di vendere scarpe?”
Con questo bel titolo l’autorevole rivista sudamericana “Arte en el mundo” si interrogava sulla decadenza europea e sul nuovo fronte del neo-colonalismo d’accatto.
Milo Manara, sei una buccia.
Meriti rispetto come venditore di scarpe.
E’ ciò che hai scelto di essere. Nothing more than this.
Nonostante tu avessi la possibilità, l’opportunità e l’occasione di fare altrimenti.
Libera è l’Arte quando libero è il Pensiero perché l’Anima non viene mercificata.
No agli artisti servi della pubblicità di massa.

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