martedì 31 gennaio 2012

La Destra pubblicitaria e i dirigenti del PD presi nel sacco.


di Sergio Di Cori Modigliani

Il manifesto che vedete qui riprodotto in bacheca è un prodotto della comunicazione mediatica dell’estrema destra italiana che annuncia la manifestazione organizzata a Roma per sabato 4 febbraio. Ci sarà un raduno nazionale che si concluderà con i comizi della Mussolini e di Storace. La manifestazione fa da pendant –appartengono allo stesso concetto mentale operativo- a quella organizzata da Rifondazione comunista, voluta da Bertinotti e da Diliberto, nel 2008, quando Diliberto era ministro e Bertinotti presidente della Camera. Di giorno approvavano dei decreti governativi, la notte organizzavano cortei per la mattina dopo, contro il governo da loro stessi presieduto. (poi ci si chiede perché la sinistra è sparita in questo strano paese che chiamano Italia). L’insipienza masochista e la infantile inconsapevolezza di certa sinistra nazionale è tale che ancora oggi esiste qualcuno che considera Diliberto e Bertinotti interlocutori attendibili, dimenticandosi che entrambi hanno consegnato definitivamente la nazione nelle mani di Silvio Berlusconi su un piatto d’argento.
Che cosa avrebbe dovuto dire, allora, il sultano di Arcore: “no grazie”?
La Destra ci spiega che il corteo è “contro le banche” contro “il governo dei poteri forti” “contro il governo conservatore”..
Si dimenticano di ricordare che loro rappresentano le banche, che loro SONO i poteri forti, e che loro sono ben rappresentati, attualmente, dal più conservatore governo in assoluto che l’Italia abbia mai avuto dal 1946 a oggi.
Quindi si tratta di un delirio, che appartiene alla ormai smascherata politica della comunicazione della destra, finalizzata a diffondere sconcerto, a mescolare le carte, a creare paura e infine potersi presentare come gli unici e autorevoli salvatori della patria. Con gli esiti che possiamo immaginare.
L’immagine in bacheca è un slogan che viaggia in parallelo sul binario della comunicazione del PD. (e mi riferico qui a Bersani che beve la birra, a conosci Faruk, conosci Eva, ecc.). Sono identici, pur nelle loro apparenti differenze.
Perché sono entrambi berlusconiani.
Perché appartengono entrambi al berlusconismo.
Perché usano mezzi e strumenti della pubblicità come se le idee e i progetti fossero una merce da vendere e come se il potenziale acquirente fosse qualcuno che deve essere convinto. Perché puntano al consenso e non a un seguito ideale che nasce su un progetto comune.
Perché chiariscono, entrambi, che la loro interpretazione del potere è auto-referenziale: considerano, cioè, la gestione del potere come fine a se stessa e non come strumento per poter finalmente occuparsi del bene collettivo avendone i mezzi.
Chi intende far politica, dalla sponda di sinistra, non usa mezzi banali e tantomeno la pubblicità. Perché il fine non è quello di convincere nessuno. Mai. Non c’è nessuno da convincere su niente. Se uno sente, sulla base della propria sensibilità e dell’esercizio della propria facoltà di raziocinio, e della propria capacità di elaborazione di una realtà vissuta come  complessità e non come  banalità demagogica, allora sa dove andare e con chi.
Entrambe le fazioni, con questa campagna di comunicazione intendono vendere saponette o pannolini. Che la saponetta sia di destra o di sinistra, per me, è francamente irrilevante.
Se un partito di massa, come il PD, non è in grado di avere il coraggio di chiedere pubblicamente il tesseramento al popolo usando argomenti non pubblicitari del tipo “Iscrivetevi al PD se volete combattere contro la corruzione, la diseguaglianza, l’ingiustizia, la protervia e il privilegio degli arroganti” è perché fondamentalmente ha la consapevolezza del fatto che davanti a questa proposta gli riderebbero tutti appresso. Purtroppo.
Non è certo un caso che questa mattina l’ex tesoriere della Margherita, divenuto uomo di punta del PD, è stato accusato dalla magistratura di aver “dirottato” 13 milioni di euro ricevuti dallo Stato sul proprio conto corrente e su quello di sua moglie.
Due ore fa ha confessato ogni addebito chiedendo il patteggiamento.
Bersani insiste nel sostenere che la questione morale non tocca il Pd, neppure lo sfiora.
Storace insiste nel sostenere che lui rappresenta l’opposizione contro le banche.
Riprendiamoci il Buon Senso e cominciamo a dire piattamente pane al pane e vino al vino.


Unipol acquista un'azienda decotta. Garantiti da Goldman Sachs. E' la scelta politica del PD: meglio la finanza!

di Sergio Di Cori Modigliani

Ehilà!
Esultino pure gli asserpentati odiatori di Goldman Sachs. Questa volta hanno ragione da vendere e un succoso materiale sul quale scatenare i loro appetiti.
Ma, ahimè, è necessario fare dei distinguo e delle precisazioni.
Chi segue il mio blog sa quanto io sia sempre stato contrario alla demonizzazione di Goldman Sachs, trasformato in un totem, in un simbolo del Male Assoluto. In tal modo facendogli un enorme piacere: l’ha trasformato in un concetto astratto.
Goldman Sachs, invece, è concretissimo. E si occupa di danaro. Del danaro dei ricchi.
Anzi, dei super ricchi, degli investimenti di quell’oligarchia planetaria che finanzia ufficialmente Mitt Romney perché vuole abbattere Barack Obama in Usa, che ha concesso linee di credito agevolato a dodici società di Putin sostenendo la sua dittatoriale causa e si muove con facilità nella gestione –e pagamenti- della politica nei singoli paesi d’occupazione. Detestano la pubblicità, odiano la visibilità, amano minimizzare, adorano la clandestinità, ma soprattutto sono innamorati della mancanza di legalità e il loro sogno consiste nell’operare nelle nazioni e nei territori dove non esiste lo Stato di Diritto e possono quindi, con estrema facilità, manovrare i loro capitali a piacimento.
Chi vuole opporsi alle loro malefatte, quando li attacca come totem, fa loro un enorme piacere. Vanno seguiti, studiati, analizzati e beccati, denunciati quando e se violano le regole. Ma soprattutto STANATI: Avendo menti eccelse che lavorano per loro, è raro che commettano infantili errori di valutazione, così come è raro che non rispettino le regole del gioco nelle singole nazioni. Il punto è proprio questo.
Spetta alla stampa libera, “raccontare” ciò che fanno, come operano nel territorio e –con i dati in mano- affrontarli sul terreno politico.
Denunciarli come mostro totem non ha alcun Senso. E’ come strappare la cravatta verde a un amministratore leghista e imbufalirsi perché canta Va pensiero: è inutile e fuorviante. E’ più solido e intelligente mostrare e dimostrare che nella Roma Ladrona -dove si sono ben piazzati in parlamento e nelle istituzioni che contano- hanno dato un solido contributo ad affondare la spesa dello stato, a depauperare le quattro grandi regioni del settentrione, dirottando diversi miliardi di euro, gran parte dei quali sono finiti in società di comodo che finiscono tutte per confluire poi nella “Padania Fin”, una società finanziaria di investimenti finanziari off shore gestita dalla consorte di Bossi, da Rosy Mauro, da Paolo Reguzzoni, e dal cosiddetto Trota. Il cosiddetto “cerchio magico” non ha nulla da invidiare a una riunione d’affari di businessman siciliani a Trapani. La finanziaria è una vera e propria cassaforte del malaffare che finanzia lo spettacolo per i gonzi settentrionali, un’etnìa davvero deludente in quanto a intelligenza e lungimiranza, visto che li votano e che neppure si sono accorti che là dove arriva la Lega Nord a gestire la cosa pubblica, dopo breve tempo arriva il cemento, la distruzione ambientale del territorio, la speculazione finanziaria, il blocco dei fidi alle imprese, la ruspa della ‘ndrangheta con le loro società vittoriose alle aste degli appalti pubblici, e le imprese che contano rimangono con il loro marchio e un presidente di facciata ma i loro consigli di amministrazione finiscono per popolarsi di “terroni” di Cosenza, di Crotone, di Casal de’principi, di Caserta, di Siracusa, di Agrigento. Basti pensare che nelle 12 grosse banche del settentrione sotto controllo politico-manageriale della Lega Nord, il 75% dei posti nei consigli di amministrazione sono tutti occupati da individui nati vissuti e residenti da Formia in giù.
Ma veniamo al nostro Goldman Sachs.
Sta portando in porto un’operazione clamorosa. In Italia. Tra Bologna e Milano.
E’ il suggello all’accordo politico tra PDL e PD, con la benedizione dell’UDC.
Si tratta dell’accordo societario tra Unipol e Fondiara Sai, che stanno andando a costituire un grosso e gigantesco polo che gestisce le assicurazioni, gli investimenti finanziari, e che sta mandando davvero in brodo di giuggiole tutti i componenti delle direzione del PD che sognano di entrare nel grande gioco della finanza speculativa internazionale, ovverossia partecipare ai bagordi della oligarchia planetaria, raccontando poi ai gonzi di turno (cioè quelli che li votano) che dobbiamo scendere in piazza per manifestare contro la finanza.
Un delirio.
Per sintetizzare al massimo e spiegare a chi non ha seguito la faccenda, che cosa stiano combinando, ricordo che Fondiara-Sai è una fondamentale società nello scacchiere strategico italiano, di proprietà della famiglia Ligresti, tra le più corrotte in assoluto tra tutte le famiglie italiane che contano, dato che il loro capostipite (ufficialmente “grande finanziere”) è finito prima ammanettato, poi processato, poi condannato in primo e secondo grado, e infine in galera per due anni ai tempi di tangentopoli. Il figlio ha preso le redini del consorzio, e tra un sacco di arance e l’altro (quando andava a visitare papi in galera) ha ricostituito l’anello delle conoscenze necessarie per “creare ricchezza” (secondo la classe politica italiana). Strano modo di creare ricchezza. Il titolo che il 17 luglio del 2007 quotava in borsa 23,06 euro è sceso il 30 luglio 2008 a 12,19 euro, il 19 novembre del 2010 a 3,70 euro, il 3 novembre 2011 a 1,508 euro e il 26 gennaio 2012 a 0,7365 euro. In 4 anni di gestione amministrativa ha perso il 90% del capitale investito. Ha provocato il fallimento di 467 aziende, ha espoliato a circa 156.000 azionisti italiani il loro capitale d’investimento (i loro risparmi) e ha prodotto un colabrodo che al 31 dicembre 2011 ha raggiunto 1,2 miliardi di euro di debiti consolidati e insolvibili. Nessuno è in grado di poter dimostrare come e dove siano finiti quei soldi. In questi quattro anni non è mai arrivata neppure un’ispezione. Ma a gennaio del 2012 arriva Babbo Natale, grazie all’intercessione di Enrico Letta. E così, la cassaforte della sinistra democratica d’opposizione, la Unipol e tre banche emiliane, si prendono il colabrodo, salvano la famiglia Ligresti di cui diventano soci e firmano la propria disponibilità ad accollarsi un’azienda “totalmente decotta e fallimentare” assumendosi la copertura della situazione debitoria. A gestire l’operazione come advisor di controllo è chiamata (e accetta entusiasta) per l’appunto la Goldman Sachs di New York.
Ecco il punto.
Di solito, arrivati qui mi lascio andare al consueto attacco contro la truppa mediatica asservita, ecc. che non denuncia, non spiega, non dice nulla. E invece non va più bene comportarsi così, perché non è efficace. E non direbbe la verità.
C’è molta intelligenza in giro. E cominciano a esserci anche dei sussulti veri. Seri e attendibili professionisti della comunicazione cominciano a gettar via le briglie sul collo e dire come stanno le cose (e non parlo certo di firme minori). Ma (probabilmente con loro deludente sorpresa) non c’è più nessuno a far da cassa di risonanza. Sia il PDL che il PD hanno capito che in questo meraviglioso paese non c’è bisogno della censura, non c’è bisogno di agitarsi tanto, non si necessitano veline, né silenziatori high tech.
Basta far finta di niente.
Paradossalmente, diventa quindi compito civile dei bloggers indipendenti dare una mano a famosi e solidi giornalisti garantiti, per diffondere ciò che loro dicono e scrivono, sperando che le informazioni scorrano, che la curiosità dilaghi, che l’onda salga. Anche perché se una notizia la dà il sottoscritto, lascia il tempo che trova. Ma se, invece, si finisce per pubblicizzare una notizia del corriere della sera o de il sole24ore, forse qualche pulce nell’orecchio comincia a pizzicare anche le coscienze più addormentate.
Encomio solenne a Massimo Muchetti, vice-direttore del corriere della sera, che –qui lo ricordo- in data 5 gennaio 2012, in diretta televisiva intervistato da Lilly Gruber, con la faccia paonazza dallo sdegno e dall’indignazione esplodeva sostenendo “chissenefrega del meeting di Bruxelles…mentre sta passando sotto silenzio un’operazione di Unicredit sulla quale sarebbe necessario che intervenisse subito la Consob per controllare l’andamento in borsa quantomeno dubbio, verificare l’esatta conduzione della ricapitalizzazione, e soprattutto capire chi sono i finanziatori e come e quando….” e poi, giorno dopo giorno a scrivere sul suo giornale. Poi ha smesso. Nessuno gli è andato dietro. Nessuno ha detto nulla. E così Unicredit se n’è andata.
Altro che la banca made in Italy come sostiene la pubblicità bugiarda!
Il primo polo bancario italiano è stato “regalato” ai cinesi, ai kazaki, ai russi. Sono usciti gli inglesi, i libici, i tedeschi e naturalmente gli italiani. Un’operazione intelligente gestita da lontano da Putin grazie all’appoggio della 12esima holding finanziaria fininvest. E dalla 14esima holding Fininvest. Tradotto in termini politici: la banca è finita, in pratica, a Berlusconi e ai suoi amici internazionali.
Poteva il PD rimanere a guardare?
Naturalmente no. Aveva due possibilità: una era quella di intervenire politicamente, andare appresso a Mucchetti, montare la diffusione delle notizie, pretendere l’intervento della Consob, del governo, presentando interpellanze parlamentari alla commissione finanze.
Ha scelto la seconda: “e noi che cosa ci becchiamo?”
Si sono presi la Fondiaria Sai.
Così il gioco è fatto. Il PDL controlla Unicredit, il PD si prende la Fondiaria Sai.
Ma sono andati a rompere le uova nel paniere agli imprenditori e all’industria che spinge verso lo sviluppo, privilegiando la finanza pura. E così, la Confindustria ha capito che saranno proprio loro (e l’intero paese) a rimanere al palo. La recessione avanzerà, l’industria arretrerà, il governo e la classe politica aiuterà sempre di meno le imprese che producono ricchezza e lavoro e quindi valore, perché PDL e PD insieme stanno dimostrando di aver optato per la speculazione brutale coperti entrambi dall’ombrellone di mamma Monti, abile stratega, il quale, conoscendo i propri polli, ne conosce le sottigliezze bulimiche, e sa che pur di entrare e rimanere nel gran giuoco della finanza d’assalto, saranno disposti e disponibili a sostenerlo nel suo piano politico “esclusivamente e smaccatamente politico” il cui fine ultimo consiste nel costruire una nazione governata in maniera autoritaria e non autorevole, dove la ricchezza finanziaria aumenterà sempre di più indebolendo l’industria, dove la sussistenza e l’assistenzialismo seguiterà ad operare per garantire ai burocrati dei partiti il cash necessario e sufficiente per mantenere i propri funzionari che pagheranno i giornalisti perché spieghino ai votanti il perché e il come.
Lega Nord docet: Umberto Bossi è diventato un grosso finanziere rampante e senza scrupoli che si presenta ai suoi gonzi padani come un bonaccione groviera, pardon grana padano, che difende i vecchietti.
Qui di seguito, pubblico per intero uno splendido articolo di giornalismo economico.
Davvero ottimo.
Non è certo uscito né su Il Manifesto né su L’Unità, tantomeno su Il Giornale. Sono troppo presi dalla loro ansia elemosiniera nell’attendere il sussidio di Stato per occuparsi di allertare la nazione su ciò che sta accadendo sulle teste di tutti noi.
E’ comparso su Il Sole24ore.
Il paradosso dei nostri tempi.
L’opposizione al sistema tecnocratico-partitico della destra medioevale italiana pilotata dal ragionier robotico, è ormai passata alla Confindustria, che non sa più che pesci prendere perché, giorno dopo giorno, nell’omertoso silenzio del regime, sente il fiato sul collo avendo perfettamente capito che dovrà accollarsi la spesa di quei 2 milioni di ingordi funzionari nazionali che prestano servizio a pieno carico. Ciascuno di loro è un piccolo capo-bastone, che porta voti, costruisce clientele, affossa il rischio impresa, ostruisce il mercato.
E’ un articolo molto molto tecnico. E’ giusto che sia così. Non comprensibile a chicchessia.
Io ho scritto e presentato a voi la mia interpretazione politica dell’operazione.
Ci tenevo quindi a fornire i dettagli della fonte, così ciascuno avrà la possibilità di andare a verificare, seguendo  nomi, chi sono costoro, che cosa c’è dietro e che cosa vogliono.
Ma è un bellissimo pezzo, a dimostrazione di come va scritto un articolo di buon giornalismo economico.
Neanche a dirlo nessuno l’ha ripreso. Né in tivvù si parla dell’accordo.
Chi è curioso e conosce un po’ la materia se lo legga con attenzione.
Spiega proprio come stanno le cose. Senza fare ideologie, senza fare scandalo, dando specifiche notizie e facendo informazione. Breve e sintetico, presenta tutti gli attori. Secco e sobrio, ma tra le righe…chi vuol capir, intenda.
L’autore dell’articolo si chiama Carlo Festa, poco noto alla cosiddetta grande platea.
Se avesse riguardato la Jp Morgan e fosse stato pubblicato sul Wall Street Journal a firma di un giornalista statunitense, avrebbe senz’altro avuto un effetto dirompente.
Buona lettura.

Unipol-FonSai, subito un crollo

Unipol e la galassia Fondiaria-Sai debuttano male in Borsa il giorno dopo l'annuncio dell'accordo con il quale la compagnia bolognese andrà ad integrare il gruppo della famiglia Ligresti.
Un'operazione che nascerà con alcuni passaggi fondamentali: Unipol entrerà infatti in Premafin, la holding che controlla il 35% di Fonsai, con un aumento di capitale riservato per massimi 400 milioni funzionali a dotare la holding delle risorse finanziarie necessarie per consentirle di partecipare all'aumento di capitale di Fonsai da 1,1 miliardi. Anche Unipol procederà, a sua volta, a un aumento di capitale di 1,1 miliardi di euro per far fronte alla maxi-operazione e per rafforzare il gruppo.
Le cause dei crolli di Borsa
Le variazioni al ribasso dei titoli hanno spiegazioni diverse: a incidere su Unipol e Fonsai (con ribassi del 3,3% e dell'8% e con la controllata Milano Assicurazioni pure in discesa a -6,6%), è stato infatti l'annuncio degli aumenti di capitale da 1,1 miliardi di euro, più rotondi rispetto a quelli previsti fino a qualche giorno prima. Si tratta di una cifra monstre se si pensa che le due compagnie capitalizzano a Piazza Affari 300 e 400 milioni di euro.
Ma c'è di più. Gli operatori sono rimasti assai scettici di fronte al continuo mutamento delle cifre sul tavolo. Fonsai è infatti stata penalizzata dalle nuove indicazioni sul rosso accumulato nell'intero 2011: a quota 1,1 miliardi rispetto alle stime precedenti di 925 milioni e alle previsioni (che circolavano sul mercato tra i principali broker) di 950 milioni, con un margine di solvibilità al 75%, ben al di sotto dei livelli regolamentari e più basso delle precedenti indicazioni al 90% a causa dell'impatto delle più elevate perdite.
Fonsai dovrà uscire dalle secche della crisi con una ricapitalizzazione fino a un massimo di 1,1 miliardi contro la precedente indicazione di 750 milioni in modo da riportare il margine di solvibilità consolidato ad almeno il 120 per cento. Diversa la ragione del crollo di Premafin, che ieri ha registrato scambi da record, dieci volte oltre la media giornaliera dell'ultimo mese. La seduta pesante per la holding, archiviata dopo una prolungata sospensione per eccesso di ribasso, dipende dal cambiamento della struttura dell'operazione verso un aumento di capitale riservato. Il precedente accordo prevedeva invece il lancio del l'Opa a vantaggio di tutti i soci di Premafin.
Il riassetto: banche al lavoro
Dopo la ricapitalizzazione, Unipol sarà il primo azionista di Premafin di cui deterrà il 70%. A sua volta la famiglia Ligresti si diluirà fino al 10% di Premafin: quota che scenderà ulteriormente dopo la fusione a quattro tra Premafin, Unipol e Fonsai-Milano Assicurazioni.
I passaggi per la costituzione del secondo gruppo assicurativo italiano sono ora a tambur battente: assemblee, Cda e l'avvio delle varie istanze autorizzative sulle quali si pronunceranno Consob, Isvap, Bankitalia e Antitrust. Si inizierà con l'assemblea di Fonsai del 16-19 marzo, che dovrà approvare un aumento di capitale da 1,1 miliardi. Proprio ieri il cda della compagnia milanese ha nominato un comitato di amministratori indipendenti per stabilire i termini dell'integrazione, estendendo inoltre gli incarichi giá conferiti agli advisor Goldman Sachs e studio legale Carbonetti.
Ma il lavoro principale sarà la costituzione del consorzio di garanzia bancario. Mediobanca ha ricevuto l'incarico per la promozione del consorzio e sarebbero stati presi contatti con istituti stranieri tra i quali Deutsche Bank e Morgan Stanley. Ma costituire il consorzio non sarà impresa semplice. Insomma, l'operazione con Fonsai, come ha spiegato l'amministratore delegato di Unipol Carlo Cimbri, resta «complessa ma si cerca condivisione e gradimento delle autorità di controllo».


"Occupy Russia" si organizza per affrontare il gelo scendendo in piazza contro "la dittatura di Putin", mentre in California la polizia sceglie la strada dura e arresta migliaia di persone.

di Sergio Di Cori Modigliani

Mentre i popoli europei cadono nella trappola del tecnicismo, del mercatismo, e della banchizzazione del dissenso, e quindi protestano e marciano (vedi Grecia, Belgio, Italia e Portogallo) chiedendo sgravi fiscali, aliquote minori, difesa dei corporativismi e annunciano e proclamano scioperi locali di varia natura, invece, nelle due più estreme e potenti nazioni dell’occidente, America e Russia, la protesta è invece tutta, assolutamente politica.
L’immagine che vedete in bacheca è la fotografia di Nastia Karimova, membro di uno dei comitati promotori del movimento russo “per la libertà contro la dittatura di pensiero” che ha accettato di uniformarsi all’attuale trend planetario, costituendosi come “occupy Russia”. Il nemico, in questo momento, laggiù dalle parti di Mosca –come sempre- è “il generale Inverno”. Putin si lecca i baffi, aiutato dalla meteorologia che prevede per sabato 4 febbraio una temperatura intorno ai 30 gradi sotto zero. Il che equivale all’aborto della grande manifestazione di protesta contro la sua tirannide.
Eppure, i russi (onore al merito del coraggio civile) hanno deciso di non mollare.
E invece di sfidare astratti concetti che non sanno di nulla (tipo: Goldman Sachs, le banche, il destino, l’Europa in senso vago) chiamano a raduno la gente “sfidando il gelo dell’inverno”. E così Nastia, in bikini, insieme a Natasha Koulekova, Irina Komalenko e Gabrielle Schernenkova, in rappresentanza dei comitati locali di Mosca, S. Pietroburgo, Vlasta e Ekaterinburg, si sono piazzate per ore all’incrocio di grandi nodi stradali con i loro cartelli ""Il 4 febbraio alle 12 in piazza Kaluzhskaja - Il freddo non è terribile, saranno soltanto -30. Che uomini siete? Che cos’è una zaffata di gelo contro il ghiaccio perenne della dittatura?” Con abile e intelligente spirito di comunicazione si sono impugnate della retorica ultra-macho di Vladimir Putin per stimolare la gente, e soprattutto i maschi, a non farsi ricattare dal gelo. Basta coprirsi, è il loro consiglio. Venerdì distribuiranno migliaia di tavolette di cioccolata, thermos con il thè e hanno scelto e deciso di non mollare.
I pessimisti ritengono che sarà un flop totale e clamoroso e la fine del movimento.
Gli ottimisti puntano a portare in piazza 30.000 persone. Il che, nel caso si dovesse verificare, a -30 sarà un vero trionfo.
Non possiamo che far loro tanti auguri.
Nella Bay Area, dirimpetto a San Francisco, dove invece c’è il calduccio, a Oakland per la precisione, 35.000 attivisti di “occupy California” hanno organizzato la prima manifestazione di protesta priva di attacchi contro il 99%, contro le banche, contro la finanza. Slogan basico “Per la dignità della nazione”, “Per la libertà di stampa contro la censura in rete” “Per la priorità di libertà giustizia e fratellanza su tutto il resto” e hanno marciato inalberando i cartelli con le effigi non di Che Guevara o Vladimir Lenin, bensì di George Washington, Thomas Jefferson, Voltaire, in alcuni casi addirittura Napoleone, mescolato a Martin Luther King, a Malcolm X, ad antiche immagini di marines sanguinanti nelle paludi vietnamite.
E guarda caso, la polizia locale che fino a ieri aveva osservato con curiosità comprensiva la massa di persone che in maniera giocosa e variopinta protestava sostenendo “noi siamo il 99%”, questa volta è intervenuta con spietata durezza arrembante e dopo averli bastonati ben bene, ne hanno arrestati 3.000 che andranno sotto processo per direttissima la prossima settimana; con pesanti capi di imputazione.
Agli estremi geografici del mondo occidentale, dalle ultime spiagge a ridosso dell’America, fino alle gelide pianure degli Urali, c’è chi ha già abbandonato la sloganistica retorica contro la finanza speculativa, dato che tutti si sono accorti come –con abile mossa marketing- la destra oligarchica (cioè le stesse banche) si siano impossessati di quei concetti per dirigere la protesta. Quindi rendendola evanescente e sottraendole il Senso.
Sia gli americani che i russi stanno riportando la Politica al centro.
Sia agli americani che i russi scendono in piazza con nuovi slogan che non ammettono facili ambiguità da cartellonistica spicciola dal sapore pubblicitario.
Perché la lotta si sta radicalizzando e comincia –finalmente- a essere sempre più chiaro che lo scontro è squisitamente e totalmente politico e la discriminante è netta e precisa: chi combatte per salvaguardare i principii che hanno fondato la libertà civile in occidente e chi invece intende usare la retorica per riportare il pianeta ai nefasti bagordi medioevali pre-rivoluzione francese.
Con l’obiettivo dichiarato di farci regredire tutti, sotto il quotidiano ricatto dello spread, dei tagli, delle aggiunte, delle sottrazioni, delle moltiplicazioni. Un linguaggio che non appartiene ai popoli, non appartiene ai movimenti, bensì agli analisti finanziari. Basta che non si parli di politica vera, di idee, di principii, di sogni, di ambizioni, e che la gente pensi che il potere personale non esiste, che non ci sono alternative perché la scelta è “o loro o il baratro”.
Non è vero.
Ma nell’Europa continentale, da Oporto a Varsavia, questo, ancora non lo vogliono capire.
I primi moti che diedero inizio alla rivoluzione francese non nacquero per la carestia.
Si manifestarono perchè la borghesia che produceva e lavorava e voleva avere il diritto di inventare la propria vita stabilì che non era giusto vivere in un mondo dove il mio vicino di casa valeva più di me soltanto per il fatto che un decreto stampato aveva stabilito che nelle sue arterie il sangue aveva un colore diverso dal mio.

Auguro tanta buona fortuna ai fratell russi.


lunedì 30 gennaio 2012

Iniziano le Grandi Manovre per le nomine Rai. Comincia il piagnisteo per avere soldi. Ma Antonio Di Pietro si infuria e denuncia l'inghippo.

di Sergio Di Cori Modigliani


“Se domani aprissimo un circolo culturale di liberi pensatori italiani, non stipendiati dai partiti, credo che difficilmente riusciremmo a trovare il quarto per giocare a carte”.
                                                                                        Indro Montanelli. 1995


Sono iniziate le grandi manovre. Con un piagnisteo. All’italiana.
Con l’entusiasmante prospettiva di avviarci, nell’immediato futuro, dal 61esimo posto al mondo come paese con il minor tasso di libertà di stampa, alla conquista di un posticino al sole accanto all’Angola, e se ci va bene, chissà –se Dio ci aiuta- raggiungiamo perfino la Cina, la Nigeria e la Corea del Nord, ultimi in classifica.
Il piagnisteo ha un inghippo, naturalmente.
Parliamo qui di Giuliano Ferrara, de l’unità e de il manifesto, tutti insieme appassionatamente (ma vi garantisco che non è proprio il caso di sorprendersi) in combutta perché pretendono il rinnovo di succulente sovvenzioni dallo Stato pena “la chiusura delle loro testate” dove una pattuglia di politicanti –sia di destra che di sinistra-assorbono la maggior parte dei soldi per i loro lauti stipendi mentre le pagine vengono riempite da uno stuolo di collaboratori esterni, alcuni dei quali davvero bravissimi, assoldati nel gran mondo del precariato dei professionisti della comunicazione. Pagati, quando va bene, con cifre del tipo “20 euro ad articolo” (il pagamento, di solito, viene saldato a sei mesi, un anno, se si è fortunati) con la promessa di un contratto un giorno forse se va bene però (e intanto votate per chi ci sostiene).
Tutti d’accordo, quei signori, nel sostenere la libertà di mercato, il rischio impresa, la concorrenza, la liberalizzazione. Ma quando si arriva a fare i conti e ci si accorge che non vendono, e quindi vengono bocciati dal mercato e dal pubblico perchè sono organizzati e gestiti in maniera clientelare e poco professionale, allora si rimboccano le maniche e partono i comizi, le proteste, le richieste, i cortei, i proclami. Si dimenticano le teorie (esposte la sera prima in un talk show televisivo), le mozioni (presentate in parlamento per fare bella figura) l’ideologia di appartenenza. Perché di fronte allo Stato, interpretato come mucca perenne dalla quale succhiare soldi in cambio di nulla, finiscono sempre per mettersi d’accordo.
Piagnisteo piagnisteo. Lo conosciamo bene. Ma c’è un inghippo, come dicevo.
Perché la manovra del pianto da elemosina, guarda caso, accade in concomitanza di due fattori. 1). Le nomine che stanno per essere varate nella scelta dei direttori di rete e dei telegiornali in Rai, che per decreto devono essere stabilite dal governo approvate dal parlamento. 2). Tali nomine sono così importanti per mantenere il carrozzone delle clientele da aver risolto, così, in una notte, ogni dissidio politico “nel nome della responsabilità di fronte al paese” (risate omeriche dal loggione) e PDL PD e UDC hanno presentato delle mozioni a firma comune che in punto specifico prevedono –tutti d’accordo- che a gestire la baracca delle nomine sia un certo Antonio Verro, deputato del PDL. Membro a tutti gli effetti del comitato di garanzia.  Grande amico del Malinconico già dimesso (ma seguita a essere operante e operativo in panchina) grande estimatore di tutta la stampa italiana, sta “gestendo” in questi giorni anche l’entità delle sovvenzioni per queste testate. E per altre 456 pubblicazioni che non legge più nessuno, alcune delle quali non vendono neppure una copia. Ma che, complessivamente, garantiscono il pagamento alla truppa mediatica asservita, la quale sostiene i governi, li promuove, li fa cadere, circondandosi di una triste palude dove galleggiano redattori in attesa del gran balzo dentro i talk show e mamma Rai. E chissà, se va bene, anche un posticino al prossimo parlamento, così si becca il generoso vitalizio (l’autentico sogno di ogni italiano). Come premio fedeltà.
L’unico partito in parlamento che non ha mai partecipato a questa gloriosa kermesse, è giusto dirlo, è l’IDV. Non c’è da stupirsi, quindi, che nessuno abbia diffuso la notizia di ciò che sta accadendo, con l’unica eccezione di Antonio Di Pietro, il quale ha vigorosamente protestato ma (era ovvio) senza ottenere nessun appoggio dagli altri.
Qui di seguito, alla fine del post, trovate la comunicazione che Di Pietro ha inviato a tutte le agenzie di stampa e giornali e redazioni delle televisioni, nonché a tutti gli iscritti all’ordine dei giornalisti, che non è stata resa pubblica. Non perché non lo sia. Perché non ne vogliono parlare.
Ciascuno dei partiti che sorregge Mario Monti, in questo momento, ha tutto l’interesse affinchè non cambi nulla. Per poter proseguire nella loro inflessibile marcia verso la garanzia di sovvenzioni a perdere, il controllo capillare delle testate (io ti faccio avere i soldi tu scrivi quello che a me serve e insieme sosteniamo Pinco Pallino che in aula lotta per noi facendoci avere i soldi: è quello che in Italia si chiama “imprenditoria editoriale che va sostenuta”). In tal modo, inesorabile, scatta un meccanismo malèvolo quanto inconscio: l’estensione a livello di massa della pratica dell’auto-censura.
Una volta varate le nomine, una volta partite le sovvenzioni che “salvano” testate prive di flessibilità, prive di gestione manageriale di mercato, obsolete e perdenti, ritroveremo i consueti toni di sempre. Giuliano Ferrara tuonerà su Il Foglio contro i beceri de Il Manifesto e i perfidi comunisti de L’Unità. I giornalisti de l’Unità e de Il Manifesto risponderanno tuonando che Giuliano Ferrara è anti-democratico ed è un grassone che  odia la libertà. Ferrara risponderà attaccandoli e insultandoli. Loro scriveranno altri editoriali insultandolo di rimando. Vedremo nuovi e vecchi talk show televisivi dove la truppa mediatica si esibirà difendendo e/o attaccando (a seconda di chi gestisce il talk show) l’uno o l’altro.
E a casa, gli italiani si schiereranno, da bravi soldatini, pronti a farsi uccidere per difendere l’intelligenza di Ferrara, l’indipendenza de Il Manifesto, la forza oppositiva de l’Unità. Approfittando del fatto che questo paese non ha memoria né tantomeno pudore.
Anche se si dovesse sapere oggi dell’inghippo, domani se ne saranno già dimenticati. L’importante è rimanere faziosi sostenitori della propria parte. Così lo Stato/Mucca dà il lattuccio ai furboni che ne versano qualche goccia ai furbastri perché lo distribuiscano, in quota parte, ai furbetti.
E se poi la bilancia del debito pubblico pencola dalla parte sbagliata, si sa, la colpa sarà tutta esclusivamente di Giuliano Ferrara (per chi legge Il Manifesto e L’Unità) oppure dei comunisti cattivi uniti e manifestanti (per quelli che leggono Il Foglio). Sia L’Unità che Il Manifesto che Il Foglio accusano oggi Di Pietro sostenendo che non avrebbe dovuto divulgare il nome del consigliere di garanzia che deciderà le nomine in Rai. E’ pericoloso. Non si sa mai. Magari qualcuno, in un improvviso quanto imprevisto sussulto di decoro etico, chiede ragguagli, protesta, vuole dettagli, pretende spiegazioni.
Siccome chi deve fare tutto ciò, per definizione, sono i giornalisti, i quali scrivono o parlano (se è tivvù e radio) nelle testate sovvenzionate, possiamo star certi che nessuno dirà niente.
Forse avremo i soliti radicali, i quali sosterranno di essere gli unici a dirlo.
Così approfittano della mancanza di memoria degli italiani per farsi pubblicità.
Quindici giorni fa hanno votato contro l’arresto di Nicola Cosentino, detto “Nick o’americano”. 36 ore dopo, guarda caso che coincidenza, si è sbloccata la loro pratica e sono arrivati contributi (le nostre tasse) dallo Stato Mucca per 7,5 milioni di euro. Loro hanno detto che è un caso.
Se lo sono già dimenticati tutti.
Ecco il comunicato stampa per la stampa firmato Antonio Di Pietro..
Andava male, va peggio. Eravamo uno dei Paesi con meno libertà di stampa al mondo, adesso abbiamo perso altre posizioni. Nella classifica annuale di Reporter sans frontier dell'anno scorso l'Italia era al quarantanovesimo posto, quest'anno siamo scivolati fino al sessantunesimo. Meno che in Bosnia nella Guyana e Haiti.In Italia non c'è libertà di stampa perché un grande editore e padrone di televisioni era fino a ieri il presidente del consiglio e, ancora oggi, ha in mano la vita o la morte del governo. Ma ci sono anche altri motivi altrettanto gravi, se non di più.
Il rapporto dice, per esempio, che in pochi altri Paesi tanti giornalisti
vengono minacciati e subornati dalle organizzazioni criminali come nel nostro. Se era necessario avere una prova che vivere in un Paese senza legalità significa vivere in un Paese senza libertà è arrivata con questi dati.
Il terzo motivo per cui la stampa da noi è imbavagliata è che
s'imbavaglia da sola. L'autocensura, fortissima nei giornali e ancora di più in televisione, esiste per un motivo solo: perché la politica continua a occupare l'informazione, sia direttamente, come in Rai e in Mediaset, sia indirettamente, perché può condizionare le scelte di moltissime redazioni.
Iniziare ad affrontare questa malattia mortale, a cominciare proprio dalla Rai, è dovere di questo governo se intende restare fino alla scadenza della legislatura. Le voci che girano in questi giorni per la direzione del Tg1 sono diverse ma hanno tutte un punto in comune:
il nuovo direttore sarà scelto sulla base di calcoli politici e non professionali. Noi dell’Italia dei Valori possiamo parlare perchè siamo gli unici a non aver partecipato alla logica spartitoria del CdA della RAI. Il conflitto è talmente palese che, addirittura, all’interno di quest’organo che dovrebbe essere di garanzia, siede oggi un consigliere, Antonio Verro, che è anche deputato del Pdl. Per questo chiediamo a gran voce che si esca dall’impasse attuale e che vengano modificate le regole in modo che la Rai torni a svolgere il ruolo di servizio pubblico e i giornalisti ritonino ad essere i cani da guardia della democrazia. E’ anche così che si difende la libertà di stampa nel nostro Paese.


sabato 28 gennaio 2012

La Giornata della Memoria è passata. Ma il fascismo no.......

di Sergio Di Cori Modigliani
Ci risiamo, come al solito.
Incapaci di assumerci la responsabilità delle nostre azioni storiche e delle (nostre) malefatte che compiamo nel nostro territorio, dato che la criminalità organizzata più efferata d’Europa è, per l’appunto, ahinoi italiana, non si può non sottolineare la genesi di un fenomeno nuovo che io vigorosamente contesto:  la diffusione sempre maggiore di un odio massivo contro i tedeschi e la Germania.
Non essendo in grado, per opportunismo, corruzione, miopia, di esercitare una sana ed efficace azione (legale) contro i nostri criminali nazionali, ci si organizza contro un nemico esterno: i siciliani adesso odiano i continentali dai quali si sentono abbandonati (invece di recarsi in massa dai carabinieri per denunciare l’intero consiglio regionale, destra e sinistra) i sedicenti padani vogliono la secessione invece di interrogarsi sul perché e come hanno votato e accettato la distruzione del territorio del Veneto sotto una colata di cemento gestita dalle imprese edili delle più importanti famiglie calabresi, e mentre i livornesi se la prendono con i pisani, i tarantini con i foggiani, su “Il piccolo” di Trieste compare un articolo di denuncia sull’ingresso alla grande della camorra napoletana nel territorio del Friuli Venezia Giulia -senza mai però accennare alla condiscendenza delle amministrazioni locali- (come se i camorristi arrivassero dalla luna)….e intanto il potere gongola.
E così si cerca di inventarsi un collante nazionale ritrovando un’unità di intenti nell’odio contro la Merkel, fomentando la protesta contro i tedeschi, sempre più identificati come i veri e unici responsabili dell’attuale sconquasso europeo, e soprattutto italiano.
Per la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra una meravigliosa goduria.
Il che non vuol dire esimersi dall’esercitare una forte azione di critica politica al comportamento di Angela Merkel, ma non per il fatto che lei è tedesca, bensì per gli interessi retrivi che l’oligarchia finanziaria che la sostiene l’ha spinta ad interpretare. Né più né meno di quanto non lo faccia Nicolas Sarkozy, non lo faccia David Cameron, non lo abbia fatto Silvio Berlusconi e non lo stia facendo il nostro prode ragionier robotico Mario Monti.
Invece di protestare contro le “imposizioni della Germania” (così le ha definite Mario Monti) sarebbe il caso di interrogarsi, invece, se da quel paese, da quell’etnia, da quel popolo che, in Europa, è l’unico a non avere problemi economici, ad avere uno stato welfare che funziona alla perfezione, e ad essere il più solido difensore dei diritti civili nel continente, non ci sia anche qualcosa da imparare.
Dopotutto, oltre ad Adolf Hitler, la Germania ci ha regalato anche (tanto per elencare alla rinfusa i primi nomi che mi vengono alla mente) Johannes Bach, Ludwig Van Beethoven, Immanuel Kant, Wolfang Goethe, Karl Marx, Friedrck Nietszche, Albert Einstein, Wim Wenders, ecc. Evidentemente esiste una certa intelligenza e visionarietà caratteriale nel loro dna socio-psichico che nei secoli li ha arricchiti. Ma essendo stati anche gli inventori geniali del romanticismo hanno, inevitabilmente, da bravi romantici, anche la tendenza ad esercitare soluzioni estreme: vivono alla perenne ricerca di un equilibrio tra il Sogno e la Morte.
I tedeschi sono, per definizione, deliranti.
A differenza di noi italiani che siamo mitòmani.
Loro vivono fino in fondo la loro visione (o allucinazione) e davanti allo spettro della rovina, dell’aberrazione e della morte, non si fermano, perché sono allo stesso tempo zucconi e coraggiosi. Ma proprio perché sono intimamente tragici, sono profondi, e quando finiscono nei guai (vedi giugno 1945) imbevuti della loro cultura antropologica, sono in grado di elaborare fino in fondo il lutto, come si addice a tutte le etnie tragiche. E da lì riemergono, resuscitano, ad un più altro grado di evoluzione, perché praticano la sepoltura, la celebrano e traggono le lezioni dalla Storia.
Il pericolo, in questo momento, consiste nel fatto che l’oligarchia finanziaria planetaria –che ben conosce questo meccanismo a menadito- stia tentando di ipnotizzarli né più né meno di quanto non abbia fatto Hitler nel 1933 seguendo lo stesso schema: far fare a loro il lavoro sporco a nome di tutti.
Hitler, infatti, non era certo da solo, altrimenti sarebbe durato cinque mesi.
Dipende quindi dall’esercizio costante di un’attenta e vigile funzione critica propositiva di tutti gli europei “aiutare” i tedeschi spingendoli verso la loro impagabile capacità di Sogno e allontanandoli dall’ubriacante prospettiva magnetica della Morte.
Tradotto in termini attuali, si intende oggi per Morte la fine dell’euro, l’abrogazione della democrazia rappresentativa, l’allontanamento dalla prospettiva spinelliana della fondazione degli Stati Uniti d’Europa, il crollo verticale dell’economia.
I tedeschi non sono nemici. Stanno sbagliando, il che è molto diverso.
Mentre invece Berlusconi era un nemico del popolo e un nemico delle istituzioni.
Così come il ragionier robotico non è un nemico del popolo, ma è uno che non si rende conto di ciò che fa perché è troppo innamorato della propria immagine e ha fatto la scelta sbagliata, optando per l’attrazione del Buio invece che farsi sedurre dalla Luce.
E’ così diventato il più nefasto complice di un’oligarchia pericolosa.
Quindi, noi dobbiamo impegnarci a far ragionare i tedeschi. Impresa non facile per dei mitòmani che sono –per definizione- terrorizzati alla sola idea che la Tragedia esista. I mitòmani amano la Farsa perché essendo dei sociopatici non capiscono la differenza tra realtà e fantasia, ne fanno un’unica pappa che poi, nello scontro con i dati del Reale diventa prima melassa, poi delle sabbie mobili che ingoiano poco a poco, e infine un pantano verminoso che non produce più né piante né risorse né imprese. Quando finiscono dentro una tragedia la vivono in maniera farsesca. Sennò non sarebbero mitòmani.
Tutto ciò per dichiarare che mi sottraggo vigorosamente alla nuova moda anti-teutonica non a caso voluta, lanciata e praticata dalla Lega Nord, da La Destra, e diffusa in maniera populista e demagogica da organizzazioni tipo Forza Nuova che, in più di una regione italiana, si stanno cementando per osmosi con organizzazioni dell’estrema sinistra, diciamo così per bisogno tattico-strategico, applicando la infantile e falsa argomentazione per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Falso.
Il nemico del mio nemico non è detto che debba necessariamente essere mio amico, anzi: può portarmi fuoristrada. Questa, infatti, è una interpretazione cinica che appartiene a un’idea dell’esistenza reazionaria e oligarchica che parte dal presupposto di avere finalità e obiettivi per interesse e non per idealità. Basta un esempio per chiarire: se la Coca Cola inquina l’ambiente e io mi oppongo e vengo sostenuto da un suo nemico, la Pepsi Cola, domani può essere che io finisca per avere un ambiente gestito dalla Pepsi Cola che sarà magari molto più inquinato ma non potrò dire nulla perché la Pepsi Cola l’ho eletta io dato che era mia alleata. E così via dicendo.
Per avere anche una sola possibilità di rifiorire come popolo, come nazione, e dare il nostro contributo a rifare l’Europa noi dobbiamo cominciare a essere molto meno mitòmani e molto più tragici.
Sono i tedeschi migliori ad avere bisogno di noi, oggi.
Perché, proprio in quanto forti e ricchi (quindi non spinti all’angolo dal bisogno) sono in grado di gestire e guidare la necessaria rivolta contro il tentativo di definitiva involuzione reazionaria perpetrata dall’oligarchia planetaria rappresentata dalla Merkel.
C’è chi viaggia per altri orizzonti, invece. Come La Destra, ad esempio.
Non a caso il 4 febbraio, da tutta Italia, si sono dati appuntamento a Roma, ben sorretti da Feltri, da Belpietro e da Guliano Ferrara, per una grande manifestazione al grido di “Abbasso la Merkel…contro le banche tedesche…non siamo servi dei tedeschi” ai quali, ahimè parteciperanno anche in “appoggio strategico” addirittura delle formazioni movimentiste della sinistra allo sbando puro.
Ed anche per rispondere a diversi quesiti che ho ricevuto per lettera tra ieri e oggi da alcuni miei lettori, ben sintetizzati da un commento a un mio post sulla Giornata della Memoria…  In seconda battuta vorrei sapere da Modigliani un pò più nello specifico (se ne ha voglia) che cosa è riuscita a fare la Germania rispetto a quello che invece non ha fatto l'Italia, per creare una società migliore e per cercare di ripartire dagli orrori del Nazifascismo. Grazie. Jack”.
Ecco la mia risposta a chi si firma Jack.
Sono nato e cresciuto in una famiglia italiana di ebrei socialisti antifascisti, e quindi educato da sempre a vedere i tedeschi come il diavolo da odiare. Qualunque cosa accadesse o di qualunque episodio si parlasse nell’arco di storia dal 1930 al 1945 era sempre colpa loro. E anche l’Italia intera era riuscita a stemperare la lettura del fascismo finendo per attribuire l’intera responsabilità dello sfacelo europeo alla Germania, ritenuta prima e unica responsabile; una situazione simile a quella di oggi.
Ricordo che cosa accadde quando –ero allora molto giovane- nei primissimi anni ’70 venne pubblicato un eccezionale libro. Era il frutto di un meticoloso e ottimamente documentato lavoro durato dieci anni, condotto e firmato da uno storico professionista italiano, davvero eccellente, il prof. Renzo De Felice. Il Libro “Storia del fascismo” veniva pubblicato da Einaudi in diversi volumi che cominciarono a uscire uno ogni due mesi. Un lavoro prestigioso, davvero sublime. Fu il terzo volume a scatenare il putiferio. Si chiamava “Gli anni del consenso”. Per la prima volta, un gruppo di studiosi italiani si assumeva la responsabilità di spiegare agli italiani come e perché i nostri predecessori si fossero innamorati del fascismo, come corressero volontariamente sotto il balcone di Piazza Venezia e quanto autentico fosse l’amore che il popolo manifestava nei confronti del Duce. Il prof. De Felice spiegava come quell’epoca storica rappresentasse “la presa del potere della piccola borghesia ottusa” attribuendo al fascismo la “responsabilità storica di aver gettato le basi per impedire lo sviluppo armonico di un capitalismo propulsivo che avrebbe potuto e dovuto spingere l’Italia verso la modernità”.
Apriti cielo!
L’intera sinistra intellettuale (comunisti in testa) insorse accusando De Felice (in pratica) di essere un mascalzone perché negava il ruolo degli italiani come vittime del fascismo. Lui difese a spada tratta il senso del suo immenso lavoro sostenendo che “il punto è proprio questo: non siamo stati vittime, bensì complici consapevoli”. Non ci fu nulla da fare.
La sua tesi non passò.
Certo, il suo lavoro era talmente inattaccabile dal punto di vista professionale, perché competente e dotato di una bibliografia immensa, con tonnellate di documenti portati a supporto della sua tesi, che nessuno osò contestarlo sulla verità dei dati. Ma si comportarono all’italiana (cioè da mitòmani): accettarono i volumi in cui si raccontavano gli aspetti nefastii, censurando l’altra parte, e finendo per isolare De Felice, attaccato perché introduceva il concetto che il capitalismo potesse essere anche generatore di ricchezza.
Fu l’occasione persa dalla cultura italiana. Dopotutto erano già passati 50 anni. Ma non ci fu nulla da fare. Anche perché gran parte di coloro che avevano sostenuto il fascismo si trovavano in parlamento seduti sugli scranni del Partito Comunista Italiano. La giustificazione che molti di essi diedero allora –e che la maggior parte dei nostri padri e nonni ha tramandato a noi dicendo il falso- era che “allora o ti iscrivevi al partito o non lavoravi”. Non era così, allora. E’ così oggi, come conseguenza del seme della mala pianta gettato nel 1922. Il fascismo non praticava il proselitismo. Erano gli italiani che entusiasti volevano iscriversi al partito pensando, in tal modo, di aggirare la fatica di studiare e applicarsi per conquistarsi il premio grazie al merito del loro operare. Indossando la camicia nera si ottenevano facilitazioni: fu la fondazione del paese dei furbi.
Elemento, questo, cooptato dal doppiogiochismo togliattiano che ha spinto valanghe di intellettuali e artisti a iscriversi al PCI e lavorare per l’Arci mettendosi al servizio del proletariato (in teoria) mentre, invece, in pratica si trattava del modo furbo di far carriera. Il Pci e l’Arci lo sapevano. Ma così si garantivano il voto. E così hanno partecipato alla costruzione di una nazione di furbi, educando la popolazione della sinistra all’idea che il “Partito” era sostitutivo della “Norma Legale”: l’inizio dell’abbattimento dello stato di diritto. Ancora oggi, sostenere quest’interpretazione, equivale a essere messo alla gogna.

Nel 1951, sei anni dopo la guerra, in una celebre quanto drammatica giornata, Konrad Adenauer si presentò al Bundestag in seduta congiunta e lesse un elenco di 1.756 nomi di importanti personaggi tedeschi di allora, molti dei quali, in quel momento, erano seduti davanti a lui come parlamentari, sia a destra che a sinistra. A quell’elenco appartenevano persone che avevano “volontariamente” prestato servizio appoggiando il nazismo. Adenauer chiese, “a nome delle generazioni che verranno, di aiutare la Repubblica Federale di Germania ammettendo le loro responsabilità, aiutando la Legge a gettare le basi di uno stato di diritto democratico, a dimettersi da ogni loro incarico e a mettersi a disposizione del Ministero della Giustizia che valuterà ogni singolo caso applicando quelle che sono le norme previste dal nostro ordinamento giudiziario”. Lo fecero tutti, tranne 46 persone. 20 di queste, nei successivi sei mesi commisero suicidio perché non sopportarono il peso del disprezzo collettivo sociale che gli dimostrarono. Gli altri 26, poco a poco, vennero sempre di più isolati. Tutti gli altri subirono regolari processi. Il 72% venne condannato, molti di loro anche a dure pene detentive. Nessuno ebbe lo sconto.
La notizia venne diffusa in tutto l’occidente, ad esclusione dell’Italia. Si temeva l’emulazione.
Sul nazismo, in Germania, calò una cortina di silenzio, che non aveva niente a che spartire con il negazionismo. Affatto. Preferivano non parlarne e non dibatterne pubblicamente perché non riuscivano a sostenere il peso della vergogna collettiva. Ma lo facevano regolarmente nelle case, negli uffici, nelle scuole. Cominciarono a uscire libri (sia romanzi che saggi, a tonnellate) in cui gli autori confessavano la propria adesione al nazismo e spiegavano le ragioni, senza vittimismo e senza pretendere pietismo. L’attore Maximilan Schell portò a teatro una piece che tenne cartellone per due anni e che raccontava la storia della presa di coscienza di un ex nazista.
Nel 1960 Rolf Hockhut con il libro, divenuto poi testo teatrale, “Il vicario” raccontò la storia della complicità del regime nazista hitleriano con il vaticano e con l’Italia. Nel nostro paese venne contestato (ovviamente) e censurato. Nessuno lo mise in scena. Sbancò in tutti i teatri d’Europa.
La figlia di Thomas Mann per cinque anni di seguito condusse una trasmissione radiofonica nell’ora di punta, tra le 18 e le 20 che si chiamava “noi nazisti inconsapevoli” e ruotava tutta intorno alla necessità dell’assunzione della responsabilità in proprio.
Perché la domanda, martellante e costante era sempre una e una sola “Com’è possibile che un’etnia così intelligente e colta come la nostra non si sia accorta che si stava mettendo nelle mani di una banda di criminali?”. Semplice ed elementare.
Alla fine degli anni’60, in Germania accadde una curiosa ondata di reazioni collettive che tutt’ora è studiata nelle facoltà di sociologia. Nella stragrande maggioranza dei casi nei quali qualche giovane adolescente veniva a scoprire che il proprio padre aveva aderito al nazismo, il giovane rompeva con la sua famiglia, se ne andava e rendeva pubblica la propria posizione dichiarando di vergognarsi di provenire da una simile famiglia. Il ’68 tedesco nacque come reazione al nazismo dei propri padri. Fu un fenomeno totalmente originale e diverso, unico nel suo genere. Era normale incontrare nel 1970 un giovane ventenne tedesco che, piangendo sincere lacrime, parlava della vergogna provata nell’aver scoperto che la ricchezza dei propri genitori proveniva dall’acquisizione impropria di beni altrui facilitato dal nazismo perché la vittima era un ebreo o un omosessuale o un disabile o un perseguitato politico (l’handicap fisico per i nazisti era considerato elemento sufficiente per poter essere considerato di “razza inferiore perché geneticamente impura”).
 Due episodi mi viene da raccontare. Uno vissuto personalmente.
L’altro, invece, appartiene all’esperienza di un’altra persona: Jack Grossburger, il padre di un mio amico statunitense che ho incontrato qualche anno fa. A cena, a casa sua, per caso cominciammo a parlare dei tedeschi. Lui era stato in Germania come soldato dell’esercito americano, ed era un fiero democratico.
E lui mi raccontò ciò che gli era accaduto.
Nel 1955, dieci anni dopo la fine della guerra. Allora lui lavorava come responsabile marketing dell’American Express per l’Europa e quindi doveva viaggiare molto nel nostro continente. Lo mandarono per la prima volta in Germania. Arrivò a Francoforte, allora importante centro industriale e di affari. Trascorse l’intera giornata dedicandosi a colloqui d’affari. La sera andò in albergo si fece una doccia e poi, verso le 8.30 scese giù e andò dal concierge. Gli chiese doveva poteva andare a divertirsi. Cercava un bar, un locale notturno dove incontrare delle donne, un posto dove andare a ballare.
Il concierge gli disse che non c’era nessun posto aperto.
Lui insistè.
Il concierge chiamò il direttore dell’albergo, il quale, con educazione gli spiegò che non c’era nessun posto aperto in tutta Francoforte, perché i cinema chiudevano alle ore 20, i ristoranti anche e non c’era nessun posto aperto la notte.
L’americano rimase esterrefatto. Non ci poteva credere. Si trovava in una delle città industriali più importanti, era venerdì sera e alle 20 era tutto chiuso.
“Ma come mai?” gli chiese.
“Così è da noi” rispose il direttore dell’albergo “da noi la gente lavora e basta”.
Ma l’americano insisteva per sapere le ragioni; con il direttore aveva chiacchierato al mattino raccontandogli la sua esperienza di soldato in Germania e volle sapere a tutti i costi come fosse possibile una cosa del genere.
Il direttore alla fine cedette. Lo guardò negli occhi e gli disse:
“Mi meraviglio di lei, che è stato anche soldato. Ed è americano. Ma lei si rende conto di quello che noi tedeschi abbiamo fatto all’Europa? Pensa che un popolo in grado di fare una cosa del genere abbia voglia, la sera, di andare a divertirsi?”
“Ma sono passati dieci anni” rispose Jack “quanto pensa che dovrebbe durare?”.
“Non ne ho idea. Durerà quello che deve durare. Quando ce lo potremmo permettere allora rialzeremo la testa. Per il momento è meglio lavorare e pensare al futuro”.
L’americano mi confessò che rimase sconvolto. E non ha mai dimenticato quella sua esperienza.
L’altro episodio è avvenuto molto tempo dopo. E’ accaduto a me, nei primissimi anni’70.
Ero in vacanze con amici, in giro per l’Europa, nel mese di luglio. Senza dirlo ai miei genitori, avevo deciso di andare all’isola di Rugen a vedere il concerto dei Rolling Stones, dato che ero un rockettaro incallito. Insieme a noi c’era un’amica tedesca. Ci eravamo incontrati tutti a Nizza, in sei, e da lì su una Diane Citroen (una macchina piccolissima e anche scomoda) attraversavamo l’Europa fino al Mar Baltico. Arrivammo ad Amburgo e andammo tutti ospiti a casa dei suoi genitori, una famiglia protestante. Il padre era molto simpatico, un medico chirurgo, che votava per la democrazia cristiana tedesca, la CDU. La sera a cena, noi ragazzi cominciammo a discutere per una questione di soldi. Dividevamo le spese ma c’era stata una differenza di opinioni relativa a 10 marchi che Pierre, l’amico francese, avrebbe dovuto dare alla ragazza. Lui sosteneva che doveva dare soltanto 5 marchi. Io lo difesi perché pensavo che avesse ragione. Andò avanti per un po’. Ad un certo punto, lei mi guardò (parlavamo tutti tedesco) e mi disse: “Certo però per 5 marchi, si vede che sei ebreo. Voi ebrei siete tutti uguali, siete una razza tirchia”.
Io non dissi niente, e neppure ci feci caso, abituato com’ero all’Italia dove –ancora oggi-dire a qualcuno “nun fa er rabbino” è considerata norma collettiva consuetudinaria.
I genitori si scambiarono un’occhiata. La madre fece un cenno.
Il padre si alzò, si avvicinò, accarezzò la figlia sulla testa e le chiese di alzarsi.
Lei si alzò.
Il padre le mollò due robusti schiaffoni facendola avvampare. La prese per un braccio e la portò nella sua stanza dove la costrinse a rimanere senza uscire. Ritornò al tavolo, si sedette e ci disse “Per questa sera Ulrike non è disponibile. Domattina, dopo colazione, vi chiederà scusa e potrete proseguire il vostro viaggio”. Dopodichè si rimise a mangiare parlando con la moglie di Fassbinder, un regista allora di moda. Come se niente fosse.
In Germania non esiste attualmente nessun gruppo attivo politico di derivazione neo-nazista, se non qualche pacifico punk naziskin solitario che non dà fastidio né noia a nessuno.
Sulla base dei dati forniti dal ministero degli interni della nostra repubblica, invece, risulterebbe che in Italia negli ultimi dieci mesi c’è stata una proliferazione di gruppi nazi-fascisti. Ufficiali, oggi, ne contano circa 250, tutti radicati nel territorio.

Nel 1970, il leader socialista tedesco Willy Brandt invitò Golda Meir (in pensione, fino a pochi mesi prima era primo ministro dello stato d’Israele) a partecipare a Bonn, allora capitale tedesca dell’ovest, a un meeting dell’internazionale socialista. Golda Meir ci andò. Invece che una settimana, rimase in Germania tre mesi. Quando ritornò a Tel Aviv scrisse una commovente lettera nella quale spiegava che “ho ascoltato i vostri discorsi, ho guardato la vostra televisione, ho letto i vostri giornali, ho parlato con i vostri connazionali, e ho trovato una nazione restituita ad una democrazia davvero avanzata. Ho potuto toccare con mano un senso di autentico pentimento collettivo rispetto alla stagione del nazismo che mi fa ben sperare per l’umanità e per il futuro di tutti sul pianeta. Penso che al mio governo farebbe davvero cosa gradita ricevere la prima visita ufficiale di un vostro rappresentante”.
Fino a quel momento nessun tedesco era mai stato invitato in Israele.
Erano passati 25 anni.
I tedeschi vennero accolti e trattati con rispetto.
In Italia, di anni, oggi, ne sono trascorsi 80.
Ancora dobbiamo ascoltare alla tivvù una deputata del parlamento come Alessandra Mussolini che spiega il motivo per cui suo nonno debba essere considerato un grande statista. E le statistiche ci informano che attualmente il 65% dei siti online sono tutti di chiara marca neo-fascista. Il fascismo -da cui l'immagine in bacheca- non è stato soltanto un fenomeno politico. E' stato anche e soprattutto una scelta di vita e una specifica interpretazione dell'esistenza, di cui Nicola Cosentino ne è l'epìtome.
Paese che vai, usanze che trovi.
Paese che vai, spread che trovi.
Hai capito, Jack, il mio punto di vista?