venerdì 30 marzo 2012

Mentre Alfano, Bersani e Casini tramano con la nuova legge elettorale, c'è chi si organizza e lancia il Quarto Polo.

di Sergio Di Cori Modigliani

Vi ricordate il titolo de Il Sole 24 ore di qualche mese fa, che a caratteri cubitali, tuonava un suo appello allarmante: “fate presto”?
Con il senno di poi, comprendiamo oggi il Senso di quella richiesta, appello, ordine, ricatto, minaccia, preghiera; attribuitegli il significato che volete.
La realtà (comprendiamo oggi) era che i nodi stavano venendo al pettine e il baratro si presentava davanti, ineluttabile quanto impietoso.
Intendiamoci, non il “baratro” di cui parla Monti e Pierluigi Bersani.
Il “loro” baratro. Che, in realtà, è un “baratro privato”.
Erano le loro banche che andavano in default, erano le loro finanziarie che stavano per fallire, era il fiato dei magistrati e dei finanzieri che bussavano alle loro porte, erano le aziende decotte e spolpate dalla classe politica corrotta che stavano saltando.  Si capiva annusando l’aria che Berlusconi & co. sarebbero stato spazzato via, di lì a giorni, con un capitombolo che avrebbe inevitabilmente dato la stura a Tangentopoli 2. Trascinandosi appresso i compagni  di cordata e di bagordi economici, destra o sinistra che fossero.
La sinistra cosiddetta democratica lanciava editti allarmistici del tipo “c’è il pericolo di una deriva di estrema destra”. Faceva da pendant la cosiddetta destra democratica che spaventava i propri polli spiegando che “caduto Berlusconi arrivano i comunisti e l’estrema sinistra”. Da cui, l’idea del governo tecnico, ecc.
Quattro mesi dopo, la situazione economica è precipitata. Questa è la realtà oggettiva.
Per quanto suoni paradossale e tragicamente ridicolo, non si può, oggi, non sottoscrivere l’estemporanea uscita di Nichi Vendola (anche lui da sempre un convinto anti-Berlusconi) che ieri sera dichiarava “Fermate Monti. Questo governo è molto ma molto peggio di quello di Berlusconi”. Il che è vero.
In quattro mesi il governo è riuscito a portare il disavanzo pubblico da 1.894 miliardi di euro a 1.945, nel nome di “sto qui per abbattere il disavanzo pubblico”.
E’ riuscito a portare il debito sul pil da circa 115 a 130 con una impennata che non si vedeva nell’economia del paese dal 1993. Il tutto nel nome “abbatteremo la percentuale di debito sul pil e già nei primissimi mesi del 2012 lo vedremo calare verso i 100”.
E’ riuscito a portare le dieci prime grandi banche italiane sull’orlo del fallimento. Il tutto nel nome di “abbiamo salvato le banche, abbiamo assicurato la finanza italiana, il nostro sistema bancario è il più solido d’occidente”. E’ considerato il più traballante, quello maggiormente a rischio e il più inquinato d’occidente, di gran lunga (ma davvero di gran lunga) peggiorato rispetto all’ottobre del 2011.
Il governo non ha ottenuto nessun  risultato.
E’ fallito quasi in tutti i campi: economico, finanziario, sindacale, culturale, esistenziale. Ha fatto centro soltanto in un campo: quello del definitivo e totale asservimento della truppa mediatica italiota, ormai completamente arresa al nuovo sistema dittatoriale sostenuto soprattutto di burocrati del PD e del PDL in chiara e inequivocabile combutta.
Il giornalista Francesco Maria Toscano, sul suo blog “Il Moralista”, notava giustamente oggi la deriva spaventosa che l’asservimento bècero della stampa sta raggiungendo in questi giorni. Ad un livello che nemmeno nel 1932 sotto Mussolini si era visto.
Ecco qui di seguito un breve estratto del suo pezzo a commento dell’uscita di Pier Luigi Battista sul corriere della sera, ormai senza pudore, nel presentare al lettore l’attuale governo come “un’autentica dittatura” ma allo stesso tempo spiegando perché va sostenuto: è la tesi di Bersani, di Veltroni, ecc.
Nemmeno per scherzo bisognerebbe inneggiare a qualsivoglia tipo di dittatura. Probabilmente non la pensa così Pierluigi Battista che nel supplemento “Sette”, numero 12, del Corriere della Sera, titola un suo pezzo “Viva la dittatura tecnica”. Sottotitolo: “Speriamo che ci salvi dal ritorno dei politici, dalle ‘narrazioni’ sconclusionate di Vendola, dalle manette verbali di Di Pietro”. Il sentimento dell’antipolitica di Battista si scaglia contro un politico come Vendola che non siede nemmeno in Parlamento e contro l’ex PM di Mani Pulite reo di non sostenere il governo Monti. Battista, in spregio della democrazia e della Costituzione, sostiene: “Dicono e auspicano che nel 2013 possa ritornare la ‘politica’. Speriamo di no. Speriamo in un congruo prolungamento della dittatura tecnica”. Poco dopo prosegue: “che i tecnici, dopo aver salvato l’Italia dalla bancarotta (?, ndr) e dal mal di spread, ci salvino pure dall’invadenza della politica. E’ una supplica”. Battista, chiude il suo articolo con un patetico invito all’armi: “Tecnici salvateci voi. Armatevi di spread e colpite duro. Tutto ma non il ritorno degli zombie. Non ce lo meritiamo più”.
Anche la Repubblica che ieri sera aveva avuto un sussulto di decoro civile nella sua edizione on-line, oggi invece, spiega (in linea con tutti gli altri) perché e come vada sostenuto questo governo il cui fine dichiarato consiste nel destrutturare l’industria italiana, colpire il lavoro sia come occupazione che come investimento imprenditoriale e approfittare del fatto che gestisce l’esecutivo per far trasferire i miliardi dalla BCE ai consigli di amministrazione di banche decotte, nessuna delle quali è gestita da esperti banchieri di professione oppure economisti esperti in finanza, bensì sono tutte (nessuna esclusa) amministrate da funzionari provenienti dal PD dal PDL dall’Udc e dalla Lega Nord, molti di loro con un modesto diploma di ragioneria; in circa 250 banche della Lombardia e del Veneto addirittura con un modestissimo diploma di scuola media e curriculum vitae piatti e inesistenti: insieme controllano il 97% del sistema bancario italiano. E’ l’unico caso in occidente in cui le banche sono gestite e amministrate direttamente dai partiti.
Monti deve coprire circa 600 miliardi di euro, e lo farà aumentando la spesa pubblica (fingendo di volerla combattere) perché la tasse servono a coprire i disavanzi di banche il cui fine non è fare affari, bensì essere un  anello di una gigantesca cinghia di trasmissione che serve a mantenere qualche milione di persone in Italia: i vari sostenitori dei partiti che reggono le banche.
Non abbiamo molto tempo.
E c’è chi si sta muovendo avendo capito che partiti come il PD sono ormai irrecuperabili alla passione civile, al decoro, alla democrazia perché sostengono l’applicazione delle catastrofiche e malsane ricette neo-liberiste. Mi dispiace per le innumerevoli persone per bene che ci lavorano dentro, ma la Storia impone l’assunzione di responsabilità, e devono avere il coraggio adulto di compiere delle scelte, compreso il blando e ambiguo Stefano Fassina che insiste nel giocare su due tavoli: manifestare in pubblico (purchè in camera caritatis) il proprio dissenso, ma poi in direzione e alla camera vota a favore. Si vede che ha lavorato per anni al Fondo Monetario Internazionale. Troppo facile. E’ come andare al casinò e puntare la stessa cifra sul rosso e sul nero: si finisce inevitabilmente sempre pari, anche se ci si sta centomila anni. Ma allora è inutile giocare se l’obiettivo è lo stallo. Evidentemente hanno un loro guadagno che noi non vediamo, altrimenti è una posizione incomprensibile, indifendibile, indiscutibile.
Ma c’è chi, invece, la pensa diversamente.
E parlo qui di persone di eccelso e riconosciuto calibro, come l’economista Piero Bevilacqua, l’economista Guido Viale, lo storico contemporaneo Paul Ginsborg, il giurista Stefano Rodotà, credo –tra tutti i vecchi naviganti di lungo corso- in assoluto la persona migliore ancora attiva politicamente in Italia: una carriera senza sbavature.
Insieme ad altre centinaia di persone pensanti, (molti dei quali eccellenti persone oneste fuggite a gambe levate dal PD negli ultimi mesi) hanno capito che non c’è più tempo e hanno lanciato pubblicamente tre giorni fa il manifesto programmatico per la costruzione del cosiddetto “quarto polo” alternativo, denunciando il piano politico neo-liberista che ormai –lo capisce anche un bambino- ha come dichiarato obiettivo quello di affossare la nazione per sempre. Se passa la linea Monti, l’Italia non si riprenderà mai più.
L’hanno capito tutti, ormai.
Qui di seguito riporto in copia e incolla l’intera proposta, comprese le firme dei relatori e dei primi aderenti. Consiglio a tutti di leggere con attenzione il testo. Vale la pena. Se volete aderire e partecipare attivamente con un vostro scritto, andate a http://www.soggettopoliticonuovo.it/ e lì trovate tutte le informazioni di cui avete bisogno.
Ha un linguaggio diverso dai consueti pomposi toni di membri della truppa mediatica mascherati da oppositori. Merita un’attenta attenzione.
E’ piuttosto lungo. Prendetevi il tempo necessario e poi, se vi va, esprimete la vostra opinione al riguardo.
Le cose peggiorano ogni giorno. E’ tempo di rimboccarsi le maniche e passare dalla protesta alla proposta, dal dire al fare, dalla divisione alla condivisione.
Ha fatto bene Toscano a commentare il pezzo di Battista: è la dimostrazione della violenza mediatica attraverso la quale intendono colpire. Bisogna, quindi, cominciare a reagire.

           Manifesto per un soggetto politico nuovo

per un’altra politica nelle forme e nelle passioni

Non c’è più tempo

Oggi in Italia meno del 4% degli elettori si dichiarano soddisfatti dei partiti politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino rabbia. Al cuore della nostra democrazia si è aperto un buco nero, una sfera separata, abitata da professionisti in gran parte maschi, organizzata dalle élite di partito, protetta dal linguaggio tecnico e dalla prassi burocratica degli amministratori e, in vastissima misura, impermeabile alla generalità del pubblico. È crescente l’ impressione che i nostri rappresentanti rappresentino solo se stessi, i loro interessi, i loro amici e parenti. Quasi fossimo tornati al Settecento inglese, quando il sistema politico si è guadagnato l’epiteto di ‘Old Corruption’.
In reazione a tutto questo è maturata da tempo, anche troppo, la necessità di una politica radicalmente diversa. Bisogna riscrivere le regole della democrazia, aprirne le porte, abolire la concentrazione del potere ed i privilegi dei rappresentanti, cambiarne le istituzioni. E allo stesso tempo bisogna inventare un soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera pubblica e di raccogliere questo bisogno di una nuova partenza. I due livelli – la democratizzazione della vita pubblica del paese e la fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto. Le nostre sono grandi ambizioni ma siamo stanchi delle clientele che imperversano, dell’appiattimento della politica su un modello unico, delle partenze che non partono. E poi, con la destra estrema che alza la testa in tutta l’Europa, si fa sempre più pressante lo stimolo ad agire, a non lasciare una massa di persone in balia alle menzogne populiste.
Oggi la sfera separata della politica in Italia, ‘il palazzo’ per intenderci, non rappresenta affatto parti intere del paese: le persone giovani, specialmente del Sud e donne, che non trovano sbocco ai loro sogni e ai loro percorsi educativi; le operaie e gli operai, che vedono giorno dopo giorno minacciati i loro diritti dentro la fabbrica, le commesse e i commessi intrappolati nella catena della distribuzione, i ceti medi del pubblico impiego, quelli della scuola, della sanità, dell’ amministrazione pubblica, che in questi anni sono stati tartassati e disprezzati; i giovani precari, spesso super-qualificati, vittime di una flessibilità selvaggia neoliberista inizialmente introdotta dal centro-sinistra che ha tolto loro dignità e futuro, la rete dei microproduttori e del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione entrata in crisi con la recessione. Tutti questi elementi possono mobilitarsi nella società per poi trovare nel palazzo solo un muro di gomma o un ascolto distratto. E’ ora di spezzare questi meccanismi perversi. Al loro posto proponiamo un nuovo percorso in cui i cittadini riescano ad appropriarsi, attraverso processi democratici diversi, del potere di contare e di decidere.
La ‘poesia pubblica’, per utilizzare la frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della Repubblica. E lo farà quando un gruppo sempre più grande di cittadini (donne ed uomini) qualificati, informati e attivi decideranno di farne la loro bandiera.

A. Diffondere il potere, non concentrarlo.

Oggi le decisioni sono sempre prese altrove – non a livello comunale ma regionale, non nel parlamento romano ma a Bruxelles, non a Bruxelles ma a Francoforte, non alla BCE ma dai ‘mercati’, strane creature che vivono solo di giorno ma che decidono tutto lo stesso, sia per il giorno che per la notte. Il nostro compito è di frenare per quanto possiamo questa fuga decisionale verso l’alto, l’inspiegabile e l’astratto. Bisogna innescare un processo opposto che destituisca, decostruisca, ceda, decentri, abbassi, distribuisca, diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della dimensione territoriale locale (ma non’ localistica’), espandendo tutti quegli spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l’uno all’altro. Il comune è uno di questi. Carlo Cattaneo, una delle più belle ed inascoltate voci del nostro Risorgimento, nel 1864 descrisse il comune come ‘la nazione nel più intimo asilo della sua libertà’. E aggiunse, con un pizzico di amarezza: ‘pare che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi’. Ridare spazio e poteri ai comuni, e metterli in contatto tra di loro sarebbe già in sé una ‘cosa grande’. La Rete dei comuni per i beni comuni punta in questa direzione, verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei diritti fondamentali ad essi collegati. E punta anche ad agire dal basso verso l’alto, costituendo una sede congeniale per proposte da sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del reg. UE n.211/2001. Si pensi, per esempio, al progetto di una ‘Carta Europea dei Beni Comuni’, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell’Unione e fronteggiare la dimensione puramente mercantile (market oriented) del diritto comunitario. In questo modo il potere locale riesce ad aggregarsi, a contare a livello nazionale, a diventare forza anche transnazionale ma sempre quale attuazione di un indirizzo politico espresso dal basso e soprattutto dalla cittadinanza attiva.
Non basta. Il comune è un’istituzione costituzionale, non un’aggregazione di una certa tendenza politica. Un soggetto politico nuovo dovrebbe impegnarsi su tanti terreni, sia dentro le istituzioni che fuori, cercando sempre di coniugare fra di loro livelli diversi della democrazia: quella rappresentativa, quella partecipativa e quella di prossimità. In prima istanza esso dovrebbe interagire con le forze e movimenti della società civile. Essi agiscono per una grande varietà di motivi – in nome dell’ambiente, in difesa dei diritti dei lavoratori, per la legalità e contro la criminalità organizzata, per la dignità e la parità delle donne – in un mondo (e un mondo di lavoro) ancora profondamente patriarcali. Nel rapporto tra i generi l’eguaglianza non può limitarsi alle “pari opportunità” cioè ad accomodamenti (pur necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma diviene un processo in grado di sovvertire l’esistente. Chi vive una situazione di ineguaglianza non può limitarsi a voler essere uguale a chi si ritiene superiore o più potente, al contrario aspira al superamento dei vecchi modelli.
Tutte queste istanze della società civile sottolineano giustamente la loro specificità e autonomia; molte insistono anche sull’informalità e spontaneità delle loro strutture. Ma allo stesso tempo tutte hanno un bisogno disperato di connettersi fra loro e con le sedi decisionali, di presentare i loro punti di vista nelle istituzioni e di riformare quelle istituzioni stesse. Si cerca un nuovo tipo di relazione politica: che forma potrebbe mai assumere una volta che ci si rende conto dell’inadeguatezza del sistema attuale della rappresentanza?

B. Il nuovo spazio pubblico della democrazia

A metà dell’Ottocento John Stuart Mill era convinto che il nuovo sistema rappresentativo garantisse a ‘tutte le voci ‘ del Regno di farsi sentire nel parlamento. La storia gli ha dato torto. Anche in virtù della deriva maggioritaria, i parlamenti si sono sempre più allontanati dal paese reale, e sempre più i parlamentari rappresentano, in primo luogo, se stessi. La democrazia rappresentativa ha bisogno, dunque, sia di una sua riforma interna in senso proporzionale, sia di essere arricchita da nuove forme di democrazia partecipativa. Ciò che vale per il sistema politico nazionale è ancora più vero per i partiti in cui la democrazia ha sempre fatto fatica ad imporsi. La teoria che sottende ai cambiamenti deve essere resa esplicita: il sistema rappresentativo è l’unico che garantisce la partecipazione di tutti i cittadini in condizioni di voto segreto. Esso gioca di conseguenza un ruolo insostituibile. Ma per affrontare l’attuale crisi deve essere associato alla democrazia partecipativa E il punto cruciale riguardante il rapporto tra i due risiede nel fatto che l’attività costante della partecipazione alimenta e garantisce, stimola e controlla la qualità della rappresentanza e la qualità della politica pubblica.
In altre parole è emersa in questi ultimi anni una domanda esplicita di rottura che ha al suo centro una nuova percezione dello spazio pubblico, che non può essere ridotto né all’attività, sempre più degradata, dei partiti, né ai codici di per sé privatistici, del “mercato”. Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più inclusiva: delle nuove forme di partecipazione dei cittadini, della gestione dei beni comuni, della società civile che interagisce, in piena autonomia, con una sfera politica che si apre alla cittadinanza invece di chiudersi come un riccio.
Processi di questo tipo cambierebbero in positivo anche il delicato rapporto tra privato e pubblico. Nei decenni del neoliberismo abbiamo assistito al trionfo del privato, declinato in vari modi: consumismo, chiusura nell’interesse personale, familismo, evasione fiscale; ma anche, sul versante opposto, solitudine, frammentazione, esclusione. Sarebbe ora di riattivare e riapplicare quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni ’60 e ’70: ‘il personale è politico’. Le persone, uomini e donne, devono riflettere sul loro ‘privato’ – i loro valori, consumi, strategie individuali e familiari. Questa riflessione ha rilevanza per lo spazio pubblico di più grande emergenza – l’ambiente. Una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni richiede una trasformazione qualitativa e relazionale del rapporto tra spazi pubblici e privati, così da perseguire la giustizia ambientale e sociale. I destini del pianeta non possono essere affidati esclusivamente ad interessi individualistici, guidati dal tasso di profitto a breve termine e dalla negazione della dignità del lavoro. In coerenza con una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni, occorre invece coniugare i doveri e i diritti, per costruire relazioni equilibrate per l’insieme della collettività.
Troppe volte la ‘partecipazione’, come viene praticata dai partiti ansiosi di dimostrare la loro disponibilità e la loro ‘modernità’, ha assunto il volto dello ‘sfogatoio’, con assemblee caratterizzate da un confusionismo generale. Occorre invece uscire da questa mistificazione della sovranità popolare, e allo stesso tempo destrutturare una sovranità popolare totalmente fondata sulla delega. Occorre trasformare il livello prepolitico della partecipazione in diritto alla democrazia. Possiamo infatti mutuare i principi della Convenzione europea di Aarhus – legge dello Stato a partire dal 2001. La Convenzione, attraverso l’istituto della partecipazione, riduce la discrezionalità delle scelte politico-amministrative, obbligando le istituzioni a prendere in considerazione le istanze partecipative e ad argomentare in maniera più circostanziata le proprie decisioni.
In questo senso il Laboratorio Napoli “Per una Costituente dei beni comuni” prevede sedici consulte divise per macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il ruolo dei facilitatori. L’informazione deve costituire il presupposto per una reale partecipazione. Il processo partecipativo è normato e calendarizzato, la sua violazione può determinare l’annullamento degli atti amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione.
Un altro esempio di partecipazione, disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi rapidissimi.
Un altro ancora viene chiamato PARTY (partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). E’ un metodo ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology), che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali che nazionali. Un’assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un’altra per prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report un’opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla plenaria. L’interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo tipo di democrazia partecipativa.
Di tutte le forme di democrazia partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di continuità temporale durante l’anno, non limitata a una singola occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi democrazia – gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di trasparenza e responsabilità.

C. Forme e pratiche di una nuova aggregazione

La degenerazione degli attuali partiti politici oscura e mortifica gli ideali di molte persone che, soprattutto a livello di base, vi militano in buona fede e con generosità. La volontà di partecipazione, di “far da sé”, di riprendere in mano il bandolo del discorso pubblico, richiede invece un modello di pratica e di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello formatosi nel lungo ciclo novecentesco. Non possiamo più accettare un modello incentrato sulla stretta identificazione di “sfera pubblica” e di “sfera politica” con un tendenziale primato della seconda sulla prima, in quanto luogo di espressione della “forma partito” intesa come unico soggetto dotato di voce e legittimazione.
I nostri Costituenti, nello scrivere l’art. 49, avevano immaginato i partiti come luoghi di mediazione, corpi intermedi fra società e istituzioni politiche. Luoghi nei quali potesse formarsi e organizzarsi il consenso. Ma il principio costituzionale che i partiti devono concorrere “con metodo democratico” alla vita politica nazionale, è stato realizzato solo parzialmente, in riferimento alle relazioni esterne dei partiti. In realtà s’immaginava che il metodo democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei partiti, sulla base di principi quali la solidarietà, l’eguaglianza, la pari dignità, la trasparenza. Una volontà velocemente disattesa da un sistema  politico che si è progressivamente  organizzato con strutture opache, piramidali, fortemente escludenti.
I partiti politici attuali sono così diventati organizzazioni completamente  anacronistiche rispetto ad un modello di democrazia che non può più  esaurirsi nella rappresentanza e nella delega. Il fondamento giuridico leggero che li intende quali libere  associazioni di cittadini non riconosciute (Codice civile) risulta  paradossale. Essi incredibilmente si trovano nella posizione di godere da un lato di tutti i benefici di un soggetto privato,  dall’altro di avere accesso ad ingenti risorse pubbliche. Un mostro a due teste che si appella al diritto di  riservatezza, proprio dei soggetti privati, mentre vive di risorse  pubbliche in una dimensione opaca, espressione di corruzione e  perversa contaminazione di interessi pubblici-privati.
Noi vogliamo invece affermare l’interpretazione autentica dell’espressione “metodo democratico”, vogliamo un soggetto politico che, oltre i partiti, sappia muovere dai fondamenti costituzionali per creare nuovi modelli di partecipazione politica, fondati sulla passione, la trasparenza e l’altruismo.
In primo luogo il soggetto nuovo, nelle sue regole e pratiche, dovrebbe mettere l’accento sull’inclusione. L’immagine dei partiti arroccati ai propri privilegi e separati dal resto della società, dediti all’hollowing out, allo svuotamento della democrazia – sempre più potere nelle mani della leadership, sempre meno democrazia interna, sempre meno iscritti (Peter Mair) – dovrebbe cedere il passo a un’altra, totalmente diversa, basata sull’allargamento dello spazio pubblico della politica, non sulla sua restrizione. Dentro questo spazio, non più separato dalle istanze della società, si muoverebbe una pluralità di attori politici nuovi. Si passa così dall’esclusione verticistica (il tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi leader) all’inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una struttura basata su regole democratiche. La struttura del nuovo soggetto non sarebbe piramidale ma confederale, senza un centro ‘nazionale’ fisso ma con un coordinamento itinerante e a rotazione che si sposta regolarmente da regione a regione. I singoli individui si aggregano in modo egualitario sia alla sfera della discussione e della decisione, sia a quella dell’azione, ognuno nei limiti delle sue possibilità e delle sue disponibilità di tempo. A tutti i livelli cerchiamo le forme politiche che consentiranno realisticamente la possibilità di confrontarsi e decidere insieme (vedi sopra nel paragrafo B). Ci interessa un luogo dove si sperimentino pratiche fondate sul “potere di” piuttosto che sul “potere su”.
Il “soggetto nuovo” nascerà da un’istanza diametralmente opposta a quella che ha guidato quasi tutti i processi organizzativi novecenteschi. Organizzarsi, secondo quel modello significava unificare gli identici, raccogliere in un unico contenitore (modellato gerarchicamente sulla struttura statale) gli “omogenei” – coloro che condividono gli stessi valori, gli stessi linguaggi, gli stessi ideali, gli stessi interessi e gli stessi luoghi. Crediamo invece che organizzare, oggi, voglia dire mettere in connessione le diversità: culturali, etniche, linguistiche. Inventare la forma della convivenza in un mondo e in una società in cui quello che era distante e separato tende a convergere e intrecciarsi. L’organizzazione politica dovrebbe essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi linguaggi di un dialetto universale in grado di superare la separatezza Una politica che sappia emanciparsi dalla coppia schmittiana “amico-nemico”. Che sappia trovare la propria “essenza” non nell’esclusione reciproca (e nel conflitto tra identità chiuse e separate) ma nell’inclusione e nella contaminazione-connessione-ibridazione tra identità.
Una serie di regole semplici e condivise che in questi anni sono diventate patrimonio comune determineranno il comportamento del nuovo soggetto nelle istituzioni e fuori di esse. Adozione di un codice etico e dunque politico nella ricerca e accettazione dei finanziamenti, rifiuto della gestione clientelare di risorse e consulenze, primarie per la selezione dei candidati o assemblee partecipate nei piccoli comuni, limiti e vincoli di mandato, rotazione negli incarichi di direzione, trasparenza nell’uso delle risorse. La vita interna del nuovo soggetto si baserà anch’essa su alcune semplici regole di base: prendere le decisioni ricercando in modo prioritario il massimo consenso possibile; quando occorre procedere al voto con il sistema “una testa un voto”, unire il rispetto delle decisioni maggioritarie con la salvaguardia dei diritti delle minoranze, possibilità per tutti di votare in modo regolare e segreto. Nelle riunioni del nuovo soggetto, considerazioni di genere devono assumere un posto di massima importanza: nessuna tolleranza per i soliti maschi accentratori. Tempi stretti di intervento, ascoltare ciascuno/a e fare in modo che ciascuno/a parli, report tempestivi delle riunioni.
La chiave della vita interna dovrebbe essere la prevenzione insieme all’invenzione: prevenzione di tutte quelle forme di burocratizzazione e di oligarchia che hanno sempre caratterizzato i partiti socialdemocratici (per non parlare di quelli democristiani), un’invenzione che si nutre di una partecipazione dal basso sempre più formata politicamente: negli ultimi anni, tante delle persone coinvolte nelle campagne referendarie e in mobilitazioni simili si sono informate, studiando, sostituendosi così ai partiti nelle proposte di nuove politiche. La formazione, ormai assente nelle strutture partitiche (con gravi danni non solo a livello nazionale, ma anche nelle amministrazioni locali, con politici sempre più ignoranti) è un terreno su cui ritornare a impegnarsi. Più estesa la scala, più arduo diventa il nostro compito. In ogni caso la nuova democrazia deve camminare mano in mano con l’efficacia. Oltre al come si decide, diventa importante come si funziona. E’ del tutto inutile rimpiazzare la repubblica delle banane o quella dei “tecnici” con una delle chiacchiere.
Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.

D. Comportamenti e passioni

Le regole formali, preziose e insostituibili, non sono sufficienti. Ad esse va associata la lenta ma costante creazione di una cultura profondamente diversa. Per troppo tempo abbiamo scelto di escludere dal campo della politica qualsiasi riflessione sulle passioni e sui comportamenti individuali. Un esempio fra tanti: la cultura della pace. Siamo bravi a predicare la non-violenza a livello internazionale ma molto meno a praticarla come virtù sociale. Le relazioni tra di noi nella sfera pubblica politica rimangono piuttosto primitive, senza alcun guida. Anzi. Abbiamo accettato fin troppo facilmente che la nostra pratica politica sia intrisa della violenza e della competitività, una forma di ‘neo-liberismo interiorizzato’. Superare una cultura così longeva e insidiosa non è questione di una stagione politica. Ma riconoscere la legittimità del tentativo è già un grande passo in avanti.
Quando parliamo delle passioni e delle emozioni viene in mente primo di tutto un discorso sul loro governo. Tante volte consentiamo che siano le passioni negative – l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira – e i comportamenti sociali che ne derivano – la rivalità, la voglia di sopraffare, il perseguimento dei propri interessi in modo esclusivo – a guidare le nostre azioni. E spesso lo facciamo con una grande inventiva, rappresentando i dissidi come ‘differenze oggettive ’, negando con veemenza le loro origini soggettive. Questo approccio rende la sfera pubblica politica paragonabile a una grande giungla preistorica, dominata da ‘ego-mostri’ – politici moderni gonfiati dall’attenzione incessante dei media. Un primo passo, dunque, verso una nuova politica in questo campo sarebbe un discorso centrato sul governo e sull’autogoverno delle passioni, l’invito forte all’autodisciplina, la produzione di un codice di comportamento.
Soprattutto dobbiamo negare spazio a una delle passioni più dannose – il narcisismo. Siamo stufi di leader narcisi e non vogliamo  semplicemente affidarci a figure carismatiche, incoraggiate al massimo dalla moderna personalizzazione della politica. Non sopportiamo il protagonismo sfrenato e l’auto-compiacimento senza fine. Se il nuovo soggetto politico venisse concepito come veicolo per una leadership che si presenta in questo modo, avrebbe poca possibilità di crescere e fiorire.
Le passioni non esistono però solo per essere governate. Una seconda riflessione invita al superamento della classica contrapposizione tra ragione e emozioni, la prima vista come positiva e civilizzante, le seconde giudicate negative e primitive. Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto per gli altri. Non cerchiamo una nuova sfera politica di auto-abnegazione e di sacrificio, in cui l’individuo si annulli a servizio della causa comune. Cerchiamo invece l’autorealizzazione individuale in un contesto collettivo radicalmente nuovo, all’insegna dell’eguaglianza. Sarebbe interessante sperimentare di più il sentimento dell’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altra/o, in termini non solo personali ma politici, praticando quella “salda comunanza” (Martha Nussbaum) che esalta le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità.
Tutto questo può trovare una prima verifica nella sfera della micro-politica, la cultura sottostante e di supporto alle regole formali e alle grandi riunioni nazionali. E’ qui che i partiti politici tradizionali danno il peggio di sé. Abbiamo visto dirigenti dei partiti venire alle riunioni e poi leggere ostinatamente i giornali finché non è il loro turno di parlare o quello di un altro dirigente (rivale). Abbiamo visto ovunque i tipici atteggiamenti maschili – non solo di uomini – per cui ci si preoccupa solo del proprio intervento, poi si riaccendono i cellulari e ci si mette a chiacchierare in fondo alla sala. Tutti arrivano in ritardo: più importante sei, più in ritardo arrivi. Tutto l’impasto di una riunione o di un’assemblea assume l’aspetto livido di una contusione, di una profonda e persistente ferita alla democrazia. Da quel terreno cosa può scaturire di nuovo o di buono?
A livello di micro-politica un soggetto nuovo metterebbe invece l’accento su un modo di comportarsi radicalmente diverso, all’insegna dell’eguaglianza e della cooperazione fra generi, della capacità di ascoltare, della puntualità, dell’incoraggiare alla partecipazione i più timidi o chi ha meno esperienza. Ritroverebbe una fisicità della politica oltre le reti virtuali di Internet, avrebbe attenzione alla massima circolazione dell’informazione interna e cura che i nuovi partecipanti non si sentano “ospiti”, ma protagonisti alla pari degli altri. A predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza e della fermezza. Il mite, scrive Norberto Bobbio, ‘è l’uomo [donna] di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé’. Alle sue qualità intrinseche ne viene aggiunta un’altra – quella della fermezza, la capacità di non cedere, come ci ha insegnato Gandhi, ma di insistere con pacatezza. Così la cultura politica nuova si distanzia mille miglia da quella classica del Novecento, basata com’era in grande parte sul machiavellismo, sulla realpolitik, sulla furbizia e l’autoreferenzialità.

Per concludere:

quattro nodi radicali e di rottura per un soggetto politico nuovo e una proposta
1.       Si rompe con il modello novecentesco del partito, introducendo nuove regole e pratiche: trasparenza non segretezza, semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, servizio non carrierismo, eguaglianza di genere non enclave maschili, direzione e coordinamento collettivo e a rotazione, non di singoli individui carismatici.
2.       Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell’eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro. Si insiste invece sulla centralità dei beni comuni, la loro inalienabilità, la loro gestione democratica e partecipata.
3.       Si rompe con la visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti. Si lavora invece per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati.
4.       Si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni, rompendo con le pratiche mai esplicitate ma sempre perseguite dal ceto politico attuale: la furbizia, la rivalità, la voglia di sopraffare, il mirare all’interesse personale. Al loro posto mettiamo l’inclusività, l’empatia, la mitezza coniugata con la fermezza.

Una proposta:

Il futuro di questo manifesto, del progetto di radicale rinnovamento della soggettività politica che esso propone, è nelle mani di tutti e tutte coloro che lo desiderano attivamente. Si può iniziare dall’impegno a promuovere incontri, inventare momenti partecipativi e occasioni di confronto fondate su una comune condizione sociale o sul radicamento attivo nei territori. Una mobilitazione diffusa e connessa, che non imponga esclusività di appartenenze e che si ritrovi poi in un primo appuntamento nazionale.
Inoltre si può pensare che sia positiva la presenza alle elezioni amministrative di liste di cittadinanza politica che prendano a riferimento e contribuiscano a costruire questo progetto nazionale. Una rete orizzontale di rappresentanza che sia radicata nei territori e connotata dagli elementi di metodo prima indicati: democrazia, governo partecipato dei beni comuni, etica, nuova cultura delle relazioni. Non si tratta di aggiungere sigle contro tutto e tutti, né di sommare esperienze locali che restano locali, tanto meno di chiudersi nel recinto di una radicalità ideologica.
Vogliamo costruire un soggetto che determini una trasformazione complessiva, costruisca anche alleanze e mediazioni ma con l’ambizione tutt’altro che minoritaria di mettere in campo un’altra Italia. Di lavorare per un’altra Europa.
Primi firmatari: Andrea Bagni, Paul Ginsborg, Claudio Giorno, Chiara Giunti, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Nicoletta Pirotta, Marco Revelli, Massimo Torelli, (Redattori del testo) Giuseppina Antolini, Danila Baldo, Giuliana Beltrame, Piero Bevilacqua, Valter Bonan, Paolo Cacciari, Nicoletta Cerrato, Adelaide Coletti, Emmanuele Curti, Sergio D’Angelo, Giuseppe De Marzo, Gianna De Masi, Silvia Dradi, Luigi Ferrajoli, Dario Fracchia, Luciano Gallino, Domenico Gattuso, Luca Giunti, Celeste Grossi, Danilo Lillia, Marinunzia Maiorani, Teresa Masciopinto, Luca Nivarra, Leo Palmisano, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Anna Picciolini, Marina Pivetta, Sandro Plano, Chiara Prascina, Corinna Preda, Giuliana Quattromini, Leana Quilici, Alessandro Rampiconi, Domenico Rizzuti, Stefano Rodotà, Chiara Sasso, Enzo Scandurra, Laura Tonoli, Mapi Trevisani, Vittorio Vasquez, Fulvio Vassallo Paleologo, Guido Viale.


giovedì 29 marzo 2012

La guerra delle Cristine. L'Argentina si scontra con il Fondo Monetario INternazionale che vuole imporle delle sanzioni per aver "osato" applicare la Teoria della Moneta Moderna.

di Sergio Di Cori Modigliani

L’abbiamo già capito da tempo che ci hanno preso per stupidi. Approfittando della narcolessia degli italioti, l’attuale governo tecnocratico prosegue nel diffondere informazioni false. Il che, di per sé non sarebbe una notizia, né una novità.
Una novità, però c’è. Quantomeno dal punto di vista, diciamo così, teorico-critico: il fallimento della politica di comunicazione dell’attuale governo. Neppure sei mesi e già iniziano a litigare tra di loro e a rilasciare dichiarazioni contrastanti. Tradotto nei loro termini (e quindi usando il loro steso linguaggio da ultra-liberisti malati di mercatismo becero e convulso) sta a significare che “i mercati penalizzeranno l’Italia che sta dimostrando una totale perdita di coesione dell’esecutivo”.
Il ragionier Monti, dall’estremo oriente si pavoneggia sostenendo di aver ricevuto complimenti e applausi dal governo cinese, come se tale fatto fosse un evento di cui essere orgogliosi. E’ un po’ come un tonno che si gongola all’idea di uno squalo affamato che, appropinquandosi mascherato da chissà quale pesciolone, lo inviti a cena insieme nelle profondità marine tanto per fare amicizia.
Monti aveva annunciato –addirittura in una specifica conferenza stampa indetta per l’occasione- in data 14 marzo (soltanto 15 giorni fa) che “l’Italia sta approfittando dell’enorme sforzo positivo che sta già dando grandi risultati; potete star tranquilli che lo spread non farà che scendere, non lo vedrete più di sicuro balzare in alto; la manovra sta funzionando. Grazie all’azione del governo siamo usciti fuori dalle secche e dal baratro”. Risultato: lo spread è salito del 37% passando da 265 a 340; la borsa va in picchiata negativa e il suo miglior ministro alleato, Corrado Passera, sta prendendo le distanze da lui, tant’è vero che ha dichiarato questa mattina 29 marzo 2012 “essere pessimisti vuol dire oggi essere realisti, in verità siamo finiti nella situazione del credit crunch (ndr. tradotto: indica una situazione nella quale lo stato incassa soldi che servono soltanto a pagare interessi composti passivi negando ogni possibilità anche teorica di una ripresa del paese); la recessione è soltanto all’inizio ed è inutile coltivare false speranze. Almeno fino alla primavera del 2013 tutti gli indici produttivi nazionali seguiteranno a essere negativi”.
Dopo il suo viaggio in estremo oriente, quindi, Mario Monti torna a casa trovando una situazione di gran lunga peggiore di quella lasciata qualche giorno prima. I più spaesati tra gli osservatori sostengono che le minacce di Monti (“il governo ha il consenso, i partiti no; le riforme le faccio sapere senza esitazione”) in verità nascondano il fatto che stia preparando le valigie perché in quattro mesi è riuscito a dispiacere tutti, compresi i suoi datori di lavoro. A scanso di equivoci, ricordo al lettore che non siete voi e neppure il parlamento. E’ stato scelto dalla Bce con applausi europei. Ma li ha scontentati (per fortuna) tutti. Non ci voleva un genio per capire che l’uomo è senza spina dorsale e già dopo il 9 dicembre, uscendo dalla riunione a Bruxelles, era chiaro che si era messo nelle condizioni passive di ricevere ordini senza contestarli.
Tutti gli economisti del mondo (con l’unica eccezione di quelli stipendiati da Draghi) avevano predetto un peggioramento notevole della situazione il 30 marzo perché né la Spagna, né il Protogallo, né l’Italia, e tantomeno la povera Grecia, sarebbero state in grado di far fronte ai propri impegni, cioè gli ordini della Bce e delle banche creditrici.
Nessuna sorpresa, quindi.

Nessuna sorpresa sulla catastrofe della politica liberista europea e sullo scempio che stanno provocando.
Una notizia, però c’è. E la trovo davvero molto interessante.
Viene dal Sudamerica. E non è certo un caso che i media non l’abbiano diffusa. Nulla.
Devo fare una brevissima premessa. Più di un lettore mi ha scritto recentemente chiedendo la mia opinione sulla MMT, la Modern Money Theory, la Teoria Moderna Monetaria e sulle sue applicazioni. Volevano sapere la mia opinione in merito. Io mi occupo di comunicazione, di teoria dei mass media e di politica culturale. Inevitabilmente mi occupo anche di economia, pur non essendo un economista, dato che il mio specifico è la teoria della comunicazione mediatica. Ho risposto a tutti che ci dovevo pensare. In realtà, siccome non mi piacciono le mode di massa, i tifosi e i grandi entusiasmi analfabeti, volevo prendere un po’ di tempo per studiarla. In questo campo così delicato e contingente bisogna sapere di ciò di cui si parla. Considero il preasoppochismo, il tuttologismo, e l’ignoranza, la migliore eredità lasciata da Berlusconi, dalla quale penso che bisogna prendere le distanze. Chi si vuole occupare, quindi, di questa teoria, deve studiare. E buon per lui/lei se ha strumenti critici. Se non li ha meglio che lasci perdere. Soltanto dallo studio e dall’applicazione può nascere l’acquisizione di un sapere che abbia un Senso. Soprattutto in un mondo dove la Cultura, ormai, si riduce a copia/incolla una striscia di facebook con annessa spruzzata di wikipedia. Me ne occuperò a tempo debito. Siccome la mia scelta è quella di essere divulgativo, quando avrò in pugno le nozioni mi esprimerò.
Fine della premessa.
Veniamo alla notizia: il virulento scontro in atto tra le tre Cristine.
Al secolo, l’economista Christine Lagarde, presidente del Fondo Monetario Internazionale, e la sindacalista Cristina Kirchner, attuale presidente in carica e capo del governo della Repubblica Argentina.
Riguarda proprio la Teoria della Moneta Moderna.
L’Economia applicata è il luogo dove la Politica diventa carne viva, vita vera, esistenza. Perché l’Economia è l’oggetto della proiezione della Teoria Politica che si fa pratica.
Aggiungo (ci tengo a questo punto) che non faccio ideologia né mi interessa seguirla. Qualunque teoria –per l’appunto è una teoria- funziona sulla carta e rimane concetto avulso e freddo fintantoché non viene applicata e il risultato della realtà mostra e dimostra se quella specifica teoria sia giusta o sbagliata. La teoria dello sviluppo economico della Russia propugnata da Stalin era una immonda bufala. Lo si evince dal disastroso  risultato ottenuto: un paese impoverito e distrutto con una economia produttiva rasa al suolo.
Le teorie liberiste hanno avuto 30 anni di tempo per mostrare e dimostrare se il loro modello funzionasse o meno. Lasciamo per un momento da parte ogni deriva complottista e i discorsi sui grandi numeri, sui cosiddetti poteri forti, ecc., ecc. Trent’anni dopo, e soprattutto negli ultimi quattro anni, siamo in grado di poter giudicare sulla base dei risultati ottenuti, soprattutto in Italia. Chiunque è in grado di poter toccare con mano che tutte le teorie del prof. Friedman e della sua truppa di economisti al seguito, i cosiddetti “Chicago boys” sono state un colossale fallimento. L’occidente si è impoverito, è regredito, è andato in crisi, è decaduto: questo è stato il risultato pratico. Quindi non funziona.
Il liberismo e il mercatismo non sono né brutti né cattivi. Questa è una interpretazione ideologica. Semplicemente non funzionano. Invece che produrre ricchezza sociale e benessere, determinano impoverimento sociale e malessere esistenziale, quindi è da suicidi o masochisti perseguire quella strada. Se la si segue (e chi la segue) allora, considerando gli esiti catastrofici, vuol dire che l’esigenza è un’altra: non è economica bensì politica. In termini di teoria della comunicazione significa che l’obiettivo non è quello di affrontare, risolvere problemi di carattere e di natura economica, bensì applicare delle regole fisse e non dinamiche che hanno origine, invece, da una Politica che vede nelle scelte economiche l’applicazione di un disegno strategico.
Da cui, il trionfo di TINA (non so se ricorderete; è l’acronimo che sta per ThereIsNoAlternative: non c’è altra soluzione) squisita sintesi di un fallimento pragmatico presentato come un successo.
La Teoria della Moneta Moderna si è presentata, invece, come un’alternativa. Negli ultimi quindici anni, diversi economisti, una volta compreso il fallimento delle ipotesi neo-liberiste, si sono dedicati ad altre potenziali soluzioni. Ma la teoria è la teoria e la pratica è la pratica.
E qui arriviamo alla notizia e a quella che io chiamo e definisco “la guerra finale tra le tre Cristine”.
La Repubblica Argentina è diventata un ballon d’essai. Un laboratorio.
Nel 2001 è fallita per 100 miliardi di euro; nel 2002, con il paese frantumato, ha raggiunto un livello di disoccupazione pari al 65% e l’economia era stata spazzata via dalle folli decisioni del governo precedente. La coppia che poi vinse le elezioni (Nestor Kirchner e poi la moglie Cristina già alla seconda legislatura) scelse e decise, dopo il primo anno di governo in cui non riuscivano a combinare un bel niente, di avvalersi della consulenza specifica di Christina Rohmer. (tutte le protagoniste della nostra storia si chiamano Cristina, per un puro caso anagrafico; squisito materiale di studio per un abile cabalista) che insegnava pianificazione economica all’università di Berkeley. La Rohmer accettò e andò a Buenos Aires, dove presentò un voluminoso studio avvalendosi di indicazioni fornite dal primo grande sostenitore della Teoria della Moneta Moderna (secondo la maggioranza degli studiosi l’autentico fondatore di questa teoria) John Kenneth Galbraith. Applicarono, quindi, la Teoria con delle varianti creative per adattarsi al modello di vita sudamericano. Già qui c’è un bonus e un extrapoint per i sostenitori di questa teoria. I principii basilari, infatti, vanno adattati al rispetto delle singole originalità territoriali, a seconda dei casi specifici: chi ha energie primarie, chi ha minerali, chi ha tante industrie, chi tanto import, chi ha tanto export, chi ha tanto territorio, chi ha tanta violenza, chi ha tanta disoccupazione, ecc.,ecc. Perché è una teoria socialmente pragmatica, il cui fine dichiarato consiste nell’allargare “nel suo massimo spettro di possibilità realisticamente applicabili e sostenibili il massimo vantaggio per l’intera collettività con la diminuzione costante della povertà, l’abbattimento del disagio e delle sperequazioni sociali, e l’allargamento della ricchezza collettiva condivisa da un numero sempre più vasto di cittadini, di ceti, di gruppi etnici” (Galbraith nel 1980 quando attaccò Margareth Thatcher sul New York Times).
I Kirchner accettarono.
Sono trascorsi dieci anni. Non è tantissimo in termini economici, ma lo è in termini politici ed esistenziali.
Comunque sia, sufficiente per poter cominciare a dare dei giudizi.
C’ è, quindi, una palestra dove la teoria è stata applicata nella pratica.
Con enorme successo.
Dal momento in cui l’Argentina ha iniziato ad applicare questa teoria, è uscita dall’emergenza catastrofica, ha iniziato un recupero di crescita economica al ritmo dell’8% annuo di crescita (il 2011 è stato il record con il 9,2% del pil in aumento) in otto anni hanno portato la povertà dal 74% al 24%, l’analfabetismo dal 60% al 12%, la disoccupazione dal 60% al 6%, il più alto tasso di occupazione sociale del pianeta dopo il Canada (occupazione al 95%) il Giappone, la Svezia. Nel 2002, come potenza economica industriale era scesa al 48esimo posto. Nel 2002 soltanto il 21% della popolazione possedeva un’abitazione. Nel 2011 la cifra è salita al 68%. Al 31 dicembre del 2011 è situata al 13esimo posto e le previsioni economiche la danno come nuovo partner tra i G10 nel 2014, anno in cui, invece, uscirà l’Italia, dequalificata e superata da Brasile, India, Russia, Corea, Argentina. Secondo alcuni, esce anche la Francia.
I liberisti hanno attaccato la politica economica dell’Argentina suggerita da Christina Rohmer e applicata da Cristina Kirchner, considerandola una catastrofe. Al punto tale da spingere Christine Lagarde ad intervenire, in qualità di massimo esponente del Fondo Monetario Internazionale. Perché la teoria (applicata) ha determinato un grave problema –come sostengono i suoi detrattori può accadere- provocando un aumento dell’inflazione reale che viaggia nell’ordine del 23% (il governo sostiene che è al 9% ma mente spudoratamente). Hanno dato ordini alla Kirchner di abbandonare quella politica economica, sapendo di poter sempre ricattare la nazione essendo il FMI. Non ha funzionato. L’Argentina se n’è fregata. E così la Lagarde le ha negato un prestito di 20 miliardi di dollari. La Kirchner non ha battuto ciglio. Ha incassato e si è rivolta al Brasile che invece si è dichiarato disponibile ponendo una curiosa, anòmala, e originale condizione che ha fatto sussultare tutto il mondo finanziario euro-americano: invece che in euro o in dollari, il prestito lo faceva in cruzeiros e accettava la restituzione in pesos argentini, al cambio identico registrato nel momento dell’accordo siglato. Così due monte diverse si sono legate tra di loro. Questo ha consentito all’Argentina di snobbare il Fondo Monetario Internazionale. La Lagarde, furibonda si è presentata a Buenos Aires con la consueta letterina firmata da Mario Draghi cercando di spiegare la catastrofe verso la quale la nazione si sta avviando e imponendo una drastica riduzione della spesa di bilancio a deficit positivo, un aumento delle tasse, la ricerca del pareggio di bilancio. Le hanno detto di no. Alla conferenza stampa comune, si sono presentate in guerra. La Lagarde ha criticato aspramente l’eccessiva inflazione (vero terrore della Merkel) lanciando anatemi sulla nazione. La Kirchner ha detto “non ne vedo il motivo; stiamo lavorando creativamente per diminuirla, nel frattempo andiamo avanti così. Io so soltanto che con una alta inflazione e con un disavanzo pubblico raddoppiato, la gente, nel mio paese, vive meglio, è felice: lavorano tutti, si arricchiscono e crescono. Preferisco una inflazione alta e un paese felice piuttosto che un’inflazione al 2,5% come in Europa dove la tristezza, il disagio sociale, il malcontento e la miseria crescono e si diffondono. A lei interessano le cifre, a me la felicità del paese”. Fine dell’incontro.
La Lagarde è ritornata a Parigi con la coda tra le gambe furibonda: l’Argentina non esegue gli ordini di scuderia. Il Brasile neppure. Hanno addirittura bypassato il Fondo Monetario Internazionale e si prestano i soldi tra di loro nella loro moneta. Ha aggiunto “è come essere ritornati ai tempi del baratto medioevale, bisogna intervenire”.
Perché?
Mi sono chiesto più volte: perché vogliono intervenire?
Che cosa glie ne importa alla BCE, a Draghi, alla Merkel, a Monti di quello che fa un paese lontano 10.000 chilometri che non fa parte né dell’euro né dell’Europa?
Nessuno mi ha dato una risposta convincente.
In realtà non c’è una risposta.
Se non quella di evitare che un esperimento vincente possa essere sottoposto, magari, all’attenzione di poveri disgraziati disperati come i portoghesi e gli spagnoli (che parlano la stessa lingua, che formano la stessa etnìa, che provengono dallo stesso ceppo) e che possono provocare un contagio, accettando l’idea che “forse” quello che a noi ci presentano mediaticamente sotto la formula “il baratro” è invece la soluzione.
A gennaio del 2012, l’Argentina è stata ufficialmente denunciata dal WTO e dal FMI per applicazione “anarchica e disordinata del protezionismo, provocando la rottura degli accordi internazionali”. Le sanzioni erano pesanti, quasi al limite dell’embargo. Ma l’Argentina l’ha spuntata grazie ai suoi succulenti limoni.
Proprio così.
Ha contro-denunciato la Gran Bretagna per protezionismo perchè ne impedisce l’esportazione sotto la dizione “non in linea con i parametri sanitari dell’Europa” dimostrando che l’Argentina dal 2004 fornisce al gruppo industriale Coca Cola il 100% dei limoni usati nelle loro bibite, vendute in tutta la Gran Bretagna. Sulla base della contro-.denuncia, l’Argentina si è detta disposta e disponibile a pagare la penale a condizione di denunciare la Coca Cola chiedendo 40 miliardi di euro di danni a nome dell’Europa, dato che negli ultimi sette anni (dal 2004 a oggi) l’intero continente è stato invaso da bibite composte da un limone considerato “non buono” dall’Europa. Dice il testo “se i nostri limoni non sono buoni, come è possibile che possa essere considerata buona una bibita che è confezionata con i nostri limoni?”.
Sapete come è andata a finire?
Pari e patta.
Ovvero: un trionfo per l’Argentina.
Christine Lagarde ha fatto marcia indietro. Ha chiesto scusa in seguito a pesanti pressioni da parte della Coca Cola che ha dichiarato come quei limoni siano fantastici e perfettamente in linea con tutti i dispositivi igienici europei. L'Argentina ha ritirato la denuncia contro la Unione Europea.
Ma è nata una nuova grana.
A febbraio del 2012.
L’accusa di protezionismo è legittima e comprensibile. L’Argentina ha lanciato un piano di re-industrializzazione del paese dando soldi pubblici alle banche a condizione che le diano in prestito a tassi minimi agevolati a imprese che producono in Argentina e assumono disoccupati iscritti nelle liste, di fatto penalizzando le banche che investono nella finanza. E ha compiuto tre gesti clamorosi.
In Argentina c’è una grande domanda per automobile straniere. Il governo è intervenuto diminuendo le importazioni di automobile che superano il prezzo di 20.000 euro del 20%. Oltre a questo ha convocato tre grandi multinazionali dell’automobile e ha fatto loro la seguente proposta: “O vi metto una feroce tassa, dato che voi guadagnate soldi e poi ve li portate via nel vostro paese, oppure il profitto che ottenete lo investite acquistando prodotti argentini che il paese esporterà quindi, grazie a voi, nei vostri rispettivi paesi”. I produttori hanno risposto “ma se noi non vi diamo le nostre automobili, voi come fate?”. E il governo ha risposto: “le compriamo in Brasile dove adesso le producono”. E così, la Hyundai acquista “biofuel” (benzina diesel verde ecologica prodotta dalla YPF, compagnia petrolifera argentina, di cui il governo ha il 65% delle azioni) che vende in Corea, la BMW acquista riso e pellame che l’Argentina produce ad alta qualità superiore di gran lunga a quello cinese, e la Porsche ha accettato diventando il primo importatore tedesco di vino Malbec, prodotto a Mendoza, con diminuzione drastica dell’importazione di vino francese e italiano.
I soldi così guadagnati dal governo vanno a coprire la spesa per le infrastrutture nuove senza dover intaccare il budget. Servono a costruire nuove strade.
Le due Cristine seguitano ad azzuffarsi. L’Argentina è stata identificata e denunciata come un paese riottoso, che non segue le regole e non rispetta gli ordini.
E’ vero. E’ proprio così.
Ma sono molto, ma davvero molto più felici di quanto non lo fossero dieci anni fa e di quanto non lo siano i loro ricchissimi cugini iberici che vivono “en el primer mundo” nel primo mondo europeo.
Il “Primo Mondo” non è più la meta da raggiungere. Soprattutto non è più simbolo di una felicità da raggiungere. Anzi: sta diventando simbolo di disperazione e cumulo di errori.
E questo cambiamento di prospettiva sta scuotendo il Fondo Monetario Internazionale.

Volevo segnalare questi fatti ai miei lettori.