lunedì 24 aprile 2017

Emanuel Macron: un bene per noi e l'Europa?






di Sergio Di Cori Modigliani 




Emanuel Macron ha vinto le primarie.
L'estrema destra, quella sinistra e quella pentastellata prendono formalmente le distanze da lui considerando il suo progetto, il suo programma e le sue parole vacue e inutili, lesive delle autentiche esigenze e bisogni de el pueblo unido.
Fotocopia della posizione francese sia della destra estrema che dell'estrema sinistra.
Con due uniche eccezioni: i dirigenti del vecchio partito comunista francese che hanno dato subito indicazione di voto a sostegno di Macron, distaccandosi dalle posizioni di Melenchon, da loro definito "un pericoloso massimalista, innamorato della realtà virtuale e di se stesso, che ha scambiato la lotta politica per il palcoscenico di una rappresentazione di teatro surrealista", mentre in Germania, il più importante filosofo europeo vivente, Jurgen Habermas (89 anni di età) il fondatore e ideatore del concetto di "democrazia diretta" nel 1965, nume tutelare dell'intellighenzia movimentista della sinistra europea ha applaudito il risultato elettorale appoggiando pubblicamente il progetto politico di Macron come "ciò che ci vuole per cambiare l'Europa restituendole il volto umano che le compete".


Nel suo primo discorso elettorale di questa mattina, Macron ha dichiarato: "E' arrivato il momento di cambiare pagina e di abbandonare la vecchia palude imbalsamata dei partiti di destra e di sinistra, quelli che in questi ultimi 30 anni non hanno fatto nulla per la nazione e per l'intero continente d'Europa".
 

Mi piacerebbe sapere dai vari Di Maio, Salvini, Fassina, Orlando, Emiliano perché tale affermazione non possa essere sottoscritta.
 

Soprattutto mi piacerebbe sapere perché non può essere accettato il programma, il progetto e il contenuto della linea politica di Macron basato soprattutto "sull'idea che è arrivato il momento di mettere di nuovo la Cultura, il Sapere e i Saperi al centro del dibattito politico, restituendo loro la meritata egemonia, per combattere la tecnocrazia e l'idea del mondo marketing basata su pagliacciate di comodo e un circo mediatico che alimenta l'ignoranza, la futilità e il protagonismo della visibilità a scapito della competenza acquisita per merito. Dobbiamo evolverci per progredire. Come umani e come cittadini".

Che cosa c'è in questo discorso di sbagliato, di reazionario e di così tanto lontano dai reali bisogni e desideri de el pueblo unido?




venerdì 21 aprile 2017

25 Aprile: La resistenza culturale va avanti.






di Sergio Di Cori Modigliani


Secondo lo scrittore Alberto Moravia, che era un amico intimo di Pasolini, il seguente testo pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti 50 anni fa, è stata la goccia che ha fatto tracimare la pazienza di potentati fascio-democristiani che volevano la morte del grande intellettuale e artista friulano. Pier Paolo Pasolini (ma quest'aspetto è ancora fortemente censurato in questo paese strutturalmente antisemita) era stato il primo intellettuale d'occidente ad aver denunciato l'uso del termine "palestinese" da parte della sinistra europea sovietizzata per manifestare di nascosto un proprio radicato e profondo anti-semitismo e aveva scelto di sostenere lo stato d'Israele contro ogni censura.
Come sappiamo, a Pasolini andò male.
E' andata male anche per l'Italia.
 

E seguiterà ad andare male, anzi peggio, se le persone non si decidono a ragionare con la propria testa rinunciando a sottoscrivere petizioni, richieste, slogan, vecchi e ammuffiti, per abitudine, per necessità sociale, per interesse opportunista o per pigrizia e superficialità intellettuale. Chi vuole riscrivere la Storia rivisitandola e concimando il seme tossico del negazionismo deve sapere che c'è chi non si inginocchia davanti ai dettami del corrente Pensiero Unico.
Tutto ciò per commentare la scelta -che condivido- del PD di non partecipare alla manifestazione dell'Anpi per il 25 aprile a Roma, in conseguenza del fatto che sarà presente una rappresentanza di organizzazioni palestinesi che culturalmente, politicamente e storicamente, fanno riferimento ai Fratelli Musulmani i quali nel corso della seconda guerra mondiale si erano schierati al fianco di Adolf Hitler. Il 25 aprile del 1945, il gran muftì di Gerusalemme si trovava a Berlino, in una proprietà di Joseph Goebbels che gli era stata regalata. "La soluzione finale è ciò che ci vuole per tutte le popolazioni arabe; eliminare fisicamente tutti gli ebrei della Terra sarà la soluzione migliore per noi, politicamente, culturalmente, ed economicamente". 
Così scriveva, nel 1940.
Aver invitato i suoi eredi a celebrare il 25 aprile, data per noi italiani simbolica, in cui si celebra la resistenza contro il nazifascismo, è un atto di infantilismo superficiale e di ignominia civile.
 

E' un insulto alla memoria storica della civiltà progressista.
 

La formazione partigiana delle Brigate Ebraiche che militarmente rispondevano nella catena di comando a Sandro Pertini e Ferruccio Parri e che hanno combattuto contro l'asservimento dell'Italia alla dittatura, non parteciperanno alla manifestazione e organizzeranno un raduno in un'altra parte della città di Roma. La sindaca Virginia Raggi, pensando piattamente di compiere un atto salomonico, ha deciso, e quindi comunicato all'intera cittadinanza, che parteciperà alle due manifestazioni. Nella sua mente, me ne rendo conto, questo gesto sta a significare una rappresentanza di tutti. Non è così. Per ragioni che sono intuitive ed è inutile dilungarsi.

Ecco il testo pubblicato nel 1968 da Pier Paolo Pasolini sulla rivista Nuovi Argomenti per parlare proprio di queste cose, visto che una sua lettera di fuoco di allora, inviata alla sede dell'Anpi e letta alla radio da Alberto Moravia, convinse l'Anpi a cancellare la presenza dei Fratelli Musulmani alle celebrazioni. Era ancora troppo alto il numero di sopravvissuti e di partigiani che ben ricordavano la realtà storica e oggettiva dei fatti.
 

Erano ancora vivi Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Ugo La Malfa.

La memoria non è un optional: è uno strumento.


Sosteneva Pier Paolo Pasolini su Nuovi Argomenti 50 anni fa:

"Ora, in questi giorni, leggendo l’Unità ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese. Possibile che i comunisti abbiano potuto fare una scelta così netta? Non era questa finalmente, l’occasione giusta per loro di “scegliere con dubbio” che è la sola umana di tutte le scelte? Il lettore dell’Unità non ne sarebbe cresciuto? Non avrebbe finalmente pensato – ed è il minimo che potesse fare che nulla al mondo si può dividere in due? E che egli stesso è chiamato a decidere sulla propria opinione? E perché invece l’Unità ha condotto una vera e propria campagna per «creare» un’opinione? Forse perché Israele è uno Stato nato male? Ma quale Stato, ora libero e sovrano, non è nato male? E chi di noi, inoltre, potrebbe garantire agli Ebrei che in Occidente non ci sarà più alcun Hitler o che in America non ci saranno nuovi campi di concentramento per drogati, omosessuali e ebrei? O che gli ebrei potranno continuare a vivere in pace nei paesi arabi?
Forse possono garantire questo il direttore dell’Unità, o Antonello Trombadori o qualsiasi altro intellettuale comunista? E non è logico che, chi non può garantire questo, accetti, almeno in cuor suo, l’esperimento dello Stato d’Israele, riconoscendone la sovranità e la libertà ? E che aiuto si dà al mondo arabo fingendo di ignorare la sua volontà di distruggere Israele?

Cioè fingendo di ignorare la sua realtà? Non sanno tutti che la realtà del mondo arabo, come la realtà della gran parte dei paesi in via di sviluppo – compresa in parte l’Italia – ha classi dirigenti, polizie, magistrature, indegne? E non sanno tutti che, come bisogna distinguere la nazione israeliana dalla stupidità del sionismo, così bisogna distinguere i popoli arabi dall’irresponsabilità del loro fanatico nazionalismo?".



giovedì 13 aprile 2017

Imbecilli che corrono con i lupi.






di Sergio Di Cori Modigliani

All'alba del decennio anni'90, quando ormai l'oligarchia liberista era diventata mainstream e cominciava ad essere chiaro a tutti che la lotta di classe al rovescio -cioè la guerra dei ricchi contro i poveri- stava vincendo alla grande, una geniale psicanalista junghiana statunitense, Clarissa Pinkola Estes, identificò con precisione millimetrica lo stato dell'arte (in quel momento specifico) nell'immaginario collettivo occidentale post-moderno. 
Pubblicò un libro che allora, quando uscì in Usa (primavera del 1990) divenne subito un libro culto. 

Il titolo era "Donne che corrono con i lupi" e in Italia sarebbe uscito due anni e mezzo dopo.

L'inatteso successo di massa di quel libro, divenuto subito in California la Bibbia dei movimenti antagonisti e di opposizione al sistema conservatore liberista, diede vita a una interminabile serie di discussioni, confronti, convegni, seminari sul tema. 
Inizialmente, il testo venne considerato appartenente alla letteratura femminista perchè la tematica del libro riguardava soprattutto la ricerca della libertà espressiva nel mondo femminile, un mondo nuovo, diverso, inconcepibile per i maschi, nel quale le donne, ormai stanche di essere accettate solo e soltanto nella misura in cui accettavano l'idea di essere le fedeli accompagnatrici delle ambizioni, progetti e fantasie maschili, rivendicavano il proprio diritto alla manifestazione della propria essenza esistenziale istintiva, da cui il titolo. Non più disposte a essere le cagne dei loro padroni, pretendevano di vivere la loro vita anche come donne lupo, e cioè libere, selvagge, all'occorrenza cacciatrici e non più prede, perseguendo (e rifondando) il mito della celebre dea Artemide/Diana, uno dei simbolici pilastri della nostra cultura occidentale di riferimento.
Quella dalla quale tutti noi occidentali proveniamo e di cui ci siamo nutriti fin da piccoli.

Il libro ebbe un enorme impatto soprattutto nella cultura anglo-sassone, per il fatto che sia tra gli anglo-americani che tra i sassoni, tuttora, esiste una cultura molto forte e radicata che identifica "the wolfman", l'uomo lupo, come il simbolo di colui che decide e sceglie di chiamarsi fuori dal sistema, di ritornare a vivere allo stato brado, rifiutando ogni forma di consumo e di ideologia legata al consueto scambio sociale (cittadino) tra gli umani. 

Quindici anni più tardi, nella primavera del 2005, quando le cose si stavano mettendo davvero molto ma molto male e i più visionari e profetici vedevano arrivare imminente una spaventosa crisi finanziaria, quindi anche economica e anche sociale, una deliziosa scrittrice canadese, Helene Humphreys, pubblicava a Montreal un romanzo "Wild dogs" che divenne immediatamente un libro culto e un simbolo culturale fondamentale per i sostenitori della decrescita e della lotta contro la società dei consumi. 
Nel territorio del Canada divenne addirittura il testo di riferimento dei nuovi movimenti che si richiamavano alla liberazione del Quebec. Il romanzo della Humphreys, uscito in Italia tre anni dopo, da noi non ebbe alcun seguito e passò quasi inosservato. E' una lettura davvero gustosa che consiglio a chiunque. L'azione si svolge in una piccola città della provincia canadese, sconvolta dalla chiusura di un mobilificio molto grosso che è il vero centro economico dell'area, e questo evento genera inquietudine nella popolazione. Le vittime di un clima a tratti pesante sono soprattutto le donne, i bambini e i cani. Proprio sei cani, senza apparenti avvisaglie, fuggono o sono spinti a fuggire dalle case dove sono cresciuti e dove sono stati nutriti, e amati, scegliendo di vivere nel bosco, di essere selvaggi, liberi. I loro padroni - Alice, Jamie, Lily, Walter, Malcolm e una misteriosa biologa - ogni sera si ritrovano in un campo ai margini del bosco e chiamano i loro cani nella speranza che tornino a casa. Fra i sei padroni si stabilisce un legame molto stretto, che sovrappone all'attesa del ritorno dei cani, speranze di amore, di amicizia e di risoluzione delle proprie solitudini, mentre, sullo sfondo, si prepara la resa dei conti, la dolorosa soluzione alla incomprensibile e "intollerabile" storia dei cani che hanno scelto di diventare selvaggi. 

La nostalgia per lo stato selvaggio, da sempre, è stata parte costituente delle fantasie di tutti coloro che vivono nella civiltà strutturata (soprattutto in quella dei consumi) e che sognano quel tipo di vita come una vera e propria utopia dello spirito. 
Gli sceneggiatori dell'Isis sono perfettamente al corrente di questo fatto e con diabolico acume hanno lanciato il termine "lupi solitari" per identificare i loro militanti radicalizzati sapendo che tale appellattivo consente di inserirsi surrettiziamente nel substrato della mente collettiva. 

E hanno ragione.

I media occidentali, scioccamente e in maniera masochista, hanno fatto da grancassa alla propagandistica dell'Isis, diffondendo quell'espressione, invece di usarne un'altra più appropriata (come consigliato da diversi psicologi e sociologi del comportamento, del tipo "i dormienti" o "cellule dormienti") in modo tale da attribuire ai terroristi una funzione narcolettica che induce alla depressione e non all'emulazione. Ma non è passata.

Dodici persone arrestate di recente in Francia (perchè sospettate di essere aderenti del sedicente califfato) ci hanno fornito un interessante materiale di riflessione. Nei loro diari elettronici confiscati, infatti, si legge sempre la solita frase, che ha fatto ormai presa nell'immaginario collettivo giovanile e non soltanto musulmano, diventando un vero e proprio mantra dell'antagonismo anti-sistema: "preferisco morire libero come un lupo piuttosto che vivere come un cane servo dei padroni che affamano il popolo".

Il lupo è considerato un guerriero, un combattente, un partigiano, in contrapposizione agli altri cani che hanno invece scelto di servire gli umani senza condizioni, in cambio del nutrimento assicurato. 
Il più grande impero della Storia, quello romano (durato 1200 anni) era identificato con il lupo femmina, considerato animale sacro,  simbolico, e quella tradizione si è trasmessa attraverso i millenni.
Nell'immaginario collettivo popolare il lupo attualmente è considerato simbolo di una lotta anti-borghese, un cane che ha rifiutato la logica del compromesso.

Tutto ciò per commentare il disastro psicologico che i media italiani stanno producendo con gravi danni alla nazione per aver scelto di dedicare un abnorme spazio a un criminale (sembra russo o croato o yugoslavo) che si aggira nelle campagne del Polesine, è armato ed è molto pericoloso. I nostri media l'hanno promosso dal rango di criminale a quello di eroe selvaggio, tanto è vero che ormai viene chiamato "Igor il lupo" e alla televisione chiamano come opinionisti addirittura degli zoologi, degli etologi e dei veterinari per spiegare ai telespettatori come comportarsi in presenza di questo lupo solitario.

A me sembra una pazzia, anche pericolosa. Il prodotto di una ignoranza radicata che si mescola a un atteggiamento di totale irresponsabilità civile da parte dei giornalisti pur di pedinare "l'odiens".

Più ne parlano, più ne alimentano il mito.
E, invece, nelle campagne dell' Emilia circola un comune criminale, di professione ladro, scassinatore e assassino, che spera di farla franca. Tutto qui.

Non mi sembra proprio il caso di enfatizzare il personaggio attribuendogli eroiche pulsioni che di sicuro non gli sono proprie.
E' un banale assassino che i media irresponsabili spacciano per qualcosa di diverso da ciò che è.
Mi auguro che lo arrestino molto presto prima che ci costruiscano sopra una pagina facebook o magari decidano di farne una serie televisiva e magari lo invitino all'isola dei famosi..

Non mi meraviglierebbe affatto.