giovedì 14 settembre 2017

C'è Cairo nel futuro dell'Italia telesionata e narcolettica?






Sergio Di Cori Modigliani


I pentastellati, a loro totale insaputa, perchè troppo ingenui per poter aspirare a essere dei politici (quelli in buona fede) sono scesi in campo partecipando alla battaglia business tra l'asse Berlusconi/Cairo da una parte e lo Stato/Rai/servizio pubblico dall'altra, schierandosi dalla parte dei cosiddetti "poteri forti" (termine da loro stessi coniato/diffuso/sostenuto). Nel mondo finanziario e imprenditoriale italiano (soprattutto quello milanese molto ben informato) gira in maniera sempre più consistente l' ipotesi che in un futuro prossimo -forse già entro un paio d'anni- Urbano Cairo decida di scendere in campo aspirando ad andare a occupare la poltrona di primo ministro, raccogliendo l'eredità, l'esperienza e l'insegnamento del suo antico datore di lavoro a pubblitalia, il senatore Marcello Dell'Utri. Resta da chiedersi quanti, dentro il M5s, (e soprattutto quali) si rendano conto della vera natura della partita attualmente in corso verso la codificazione definitiva del Pensiero Unico.
 

Qui di seguito un interessante articolo che spiega lo stato dell'arte, a firma Giuliano Balestrieri, pubblicato sul sito businessinsider.com


Cairo cavalca i 5 Stelle per scardinare il duopolio Rai-Set: vuole il canone o più pubblicità


Lilli Gruber con Urbano Cairo. Imagoeconomica
Urbano Cairo minaccia la pax televisiva suggellata dall’ormai consolidato duopolio RaiSet (con il quale viale Mazzini e il Biscione si sostengono a vicenda). D’altra parte il momento è delicato: la raccolta pubblicitaria di La7 che non decolla, mentre il servizio pubblico della Rai è costantemente sotto i riflettori. Viale Mazzini incassa il canone più basso d’Europa, ma anche centinaia di milioni di euro dagli investitori pubblicitari (615 milioni nel 2016): soldi che fanno gola a tanti editori. E così,Cairo prova a scardinare il sistema della tv in chiaro. Sulla falsariga di quanto provò a fare Fedele Confalonieri nel 1999 dicendo “alla Rai il servizio pubblico a noi la tv commerciale”.

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Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente di Mediaset e Fedele Confalonieri, presidente Giuseppe Cacace /AFP/Getty Images)
La scommessa politica
Sono passati quasi 20 anni, e adesso Cairo – che lo scorso anno ha conquistato il controllo di Rcs – prova l’ennesimo assalto a Viale Mazzini. La strada scelta però è più lunga, ma visione e pazienza non mancano di certo all’imprenditore milanese che nel frattempo cerca la sponda dei Cinque stelle, in attesa magari di scendere direttamente nell’arena politica. D’altra parte il 2018 è dietro l’angolo: troppo vicino perché chi è impegnato a rilanciare il Corriere della Sera e a consacrare La7 coltivi ambizioni da protagonista, ma potrebbe essere l’occasione per iniziare a sondare il terreno. Facendo attenzione agli umori della gente. E così l’asse con i grillini è quasi naturale: Cairo non ha padrini politici – pur essendo stato Silvio Berlusconi il suo mentore – così come i pentastellati non godono dei favori dell’establishment.

Nella foto Luigi Di Maio 5 stelle a Porta a Porta, sullo sfondo una foto di Beppe Grillo – foto di Maria Laura Antonelli / AGF
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Il nodo del servizio pubblico
Nel frattempo il battage comunicativo de La7 cresce d’intensità con il passare delle settimane: sempre più spesso al nome dell’emittente si cerca di affiancare la definizione di “servizio pubblico”. Per il gruppo è fondamentale la legittimazione popolare: ovvero il riconoscimento da parte degli ascoltatori di un palinsesto flessibile a costante servizio dell’informazione. Un riconoscimento che nel medio termine potrebbe spingere l’emittente a battere cassa al governo: perché – è il ragionamento che iniziano a fare in molti – una parte del canone non dovrebbe essere redistribuita a chi offre un servizio come quello della Rai?

Mario Orfeo direttore generale RAI e Monica Maggioni presidente della RAI. Armando Dadi / AGF
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Il dilemma dell’extra-gettito
Quasi un anno fa, in un’intervista a Repubblica, Gianni Minoli propose di mettere i 300 milioni di euro di extra-gettito da canone (garantiti dal pagamento in bolletta) a bando tra Rai e privati su progetti di servizio pubblico (a La7, per esempio basterebbero 50/60 milioni di euro l’anno per svoltare il conto economico): il problema è che di quella cifra solo una parte entra nelle casse di Viale Mazzini, il resto è destinato a fondi creati ad hoc dal governo. E poi Palazzo Chigi vuole usare l’extra-gettito per ridurre il costo del canone (peraltro già il più basso d’Europa).
Il canone più basso d’Europa
Insomma, un’impresa non semplice da realizzare anche volendo ignorare le difficoltà di natura contabile che sorgerebbero per la tv di Stato. Non si può dimenticare, infatti, che servirebbe un intervento normativo per modificare la convenzione decennale rinnovata la scorsa primavera. Certo basterebbe una norma di poche righe, ma chi avrebbe il coraggio di togliere alla Rai anche solo una fetta di quei 1,9 miliardi di canone sapendo che la sua omologa tedesca Ard riceve quasi 5,5 miliardi, la Bbc 4,5 e la televisione francese 2,5 miliardi? E poi perché questi soldi dovrebbero andare solo a La 7 e non a tutti quegli editori che fanno servizio pubblico?
Gli obblighi del servizio pubblico
Infine, come osserva Francesco Siliato analista del settore media e partner dello Studio Frasi “l’accezione di Servizio pubblico è disciplinata dalla convenzione. Davvero una rete commerciale è disposta ad abbassare il tetto degli spot al 4% settimanale? Davvero sono pronti a reinvestire una buona parte del canone in produzioni indipendenti? Davvero vogliono aprire sedi regionali per i loro telegiornali?”. Tradotto: l’ambizione di mettere le mani su una fetta del canone può essere attraente, ma comporta obblighi non certo indifferenti.
Il tetto all’affollamento pubblicitario
Più facile allora che la manovra serva ad aumentare le pressioni per rivedere i tetti alla pubblicità sulla tv di Stato che lo scorso anno ha incassato dai suoi investitori 615 milioni di euro. Anche in questo caso, in effetti, la situazione della Rai è piuttosto unica: le reti nazionali dei grandi paesi – dalla Gran Bretagna alla Francia – non hanno pubblicità (o se ce l’hanno è con forti limitazioni sia in termini di affollamento che di fasce orarie, ma dal canone ricevono molte più risorse della Rai). Per motivi diversi, però, sia il centrodestra che il centrosinistra hanno tutto l’interesse a mantenere lo status quo: inoltre, sono consapevoli che ogni modifica al tetto pubblicitario della Rai verrebbe letta come un regalo a Mediaset. I grillini, invece, potrebbero avere la forza per dare uno scossone al sistema. E Cairo lo sa bene.

Giannli Letta, Silvio Berlusconi e Urbano Cairo – Imagoeconomica
Basterebbe, per esempio, modificare la regola sul tetto del 4% all’affollamento pubblicitario settimanale della Rai stabilito dalla legge Gasparri: oggi la pubblicità settimanale delle tre reti Rai insieme non può superare il 4% delle ore di trasmissione; il governo, però, potrebbe fissare il tetto sul singolo canale anziché sull’intera emittente. In questo modo Viale Mazzini dovrebbe svuotare di spot Rai1 (oggi al 5,1%), ricaricando Rai3 (che è al 3% di affollamento, ma ha tariffe più basse per gli inserzionisti).
Per gli analisti ci sarebbe un travaso a quasi totale beneficio della rete ammiraglia di Mediaset, Canale5: non trovando spazio su Rai1 gli investitori preferirebbero migrare verso il canale della tv commerciale che ha più o meno lo stesso target ma soprattutto un’audience molto simile. A meno che il prossimo Parlamento vari una norma Antitrust con un tetto alla raccolta degli investimenti pubblicitari: Mediaset è costantemente vicina al 60% della raccolta totale. Fissando un limite invalicabile il travaso verso gli altri editori sarebbe quasi naturale. Se poi non dovesse cambiare nulla, Cairo potrebbe sempre sfruttare la nuova immagine di “servizio pubblico” per tentare la scalata a Palazzo Chigi.

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